VIVA LA LIBERTÀ di Roberto Andò

17 Feb

Composto come un haiku di Marzia Gandolfi (mymovies): 

Garbo, leggerezza, intensità, sono queste le qualità di Viva la libertà che in una poesia e un giro di danza rivela una bellezza spiazzante e intende la difficoltà della rappresentazione dell’uomo politico al cinema. Composto come un haiku, componimento poetico giapponese in tre versi declamato dal segretario di Servillo nella sede impersonale del partito, Viva la libertà ripropone la semplicità della sua costruzione e il valore alla sua base, ovvero l’intenzione di restituire al linguaggio la propria essenza pura. E pura è la partitura di passi e passaggi che allacciano il doppio di Enrico Olivieri a un’ideale Angela Merkel, accolta con un impercettibile baciamano e ‘condotta’ con l’eleganza del gentiluomo. Se il segretario della sinistra di Roberto Andò è complice passivo della politica-spettacolo fatta di gossip e scenografie pacchiane, di silicone e glamour, di nani e ballerine imposti dalla televisione e dai modelli culturali berlusconiani, il suo gemello, diverso e filosofo, è portatore di una gentilezza, immune all’amour propre e alle certezze a buon mercato dietro cui nascondersi o con cui autoingannarsi. Ma nella fuga da sé e in cerca dell’altro da sé, Enrico comprenderà allo stesso modo che non si può godere appieno di se stessi senza un’altra persona. Danielle sul set francese, quello reale e quello finzionale, risveglierà in Enrico quel potenziale innato di amorevolezza che la società soffoca e corrompe, recuperandolo alla visione smarrita e a un linguaggio nudo.

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Compendiando senza ‘ricalcare’ i caimani, i divi e gli usurai di Moretti, Sorrentino e Garrone e recuperando la lezione di un cinema italiano che rappresenta la realtà interpretandola e non spiegandola, Roberto Andò realizza un film sul disagio del potere, meglio, dell’essere immagine del potere, lasciando transitare indifferentemente il suo politico dalle recite di una tribuna politica al set. Il mestiere è chiaramente lo stesso, identico il metodo attoriale, medesimo l’attore. Politico sullo schermo per tutte le stagioni, Toni Servillo, già Andreotti inafferrabile per Sorrentino e padre teorico dell’Italia Unita di Martone, si emancipa dal ruolo intravedendo l’altrove per sé, il Paese e il cinema italiano. Assediato dal suo personaggio e dalla forza del destino, il corpo imperscrutabile e meccanico del ‘divo’ si scioglie nella danza, nell’ouverture bofonchiata di Verdi, nella poesia di Brecht, nel sorriso dopo un bacio.

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Come Volonté diventava per Petri prima Lulù Massa (La classe operaia va in paradiso) e poi Aldo Moro (Todo modo), Servillo riduce le distanze tra ‘operaio’ e potente fino a far coincidere, in un primo piano spiato dal Bottini di Mastandrea, l’uomo ordinario con quello straordinario. Ernani, alla maniera dell’omonimo verdiano, finisce dunque per comprendere Enrico e Giovanni, il ‘bandito’ e il conte, la farsa e la tragedia, il comico e il sublime, l’oscurità e il conforto onirico. Quello realizzato dal cinema di Federico Fellini, il cui intervento veemente, dietro la grana di un filmato di archivio, invita artisti e spettatori a tenere gli occhi aperti anche quando c’è scritto che è proibito guardare. Andò, traducendo in immagini il suo romanzo (“Il trono vuoto”), ci regala gli ultimi versi di Fellini, i più belli, contro una legge censoria che divorava il cinema, tagliava i paesaggi, alterava il ritmo rendendo i film irriconoscibili e noi poveri incivili.

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