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THE SWEET HEREAFTER di Atom Egoyan

15 Lug

Lutti estremi e sopravvivenza psichica di Cesare Secchi

Premessa

 Collocato nella fase ormai matura della produzione cinematografica del regista armeno-canadese, The Sweet Hereafter (1997) rinvia ai precedenti The Adjuster (1991) ed Exotica (1994), nonché al successivo Felicia’s Journey (1999), tanto per le tematiche in gioco – con particolare riferimento alle gravi perdite e ai tentativi di assorbirle – quanto per la messa a punto della struttura narrativa «frammentata, a mosaico, che cerca una ricomposizione nell’intreccio e nella messa in scena» (Malanga 1997; De Bellis, 2002).
La trasposizione allo schermo dell’omonimo romanzo di Russell Banks è stata paragonata a una partitura musicale (cfr. Malanga, ibid.; McGilvray, 1998; Zevelinsky, 1998) grazie alla qualità evocativa della narrazione che, pur conservando una complessiva compattezza e una costante tensione, sposta continuamente il suo fuoco nel tempo e nello spazio sull’onda dell’attuale stato emotivo (straordinario il lavoro di montaggio effettuato da Susan Shipton, nonché l’affiatamento degli interpreti al ritmo sincopato del racconto). Sicché, i differenti punti di vista dei personaggi nei differenti momenti si moltiplicano, si diffondono, si allargano in modo embricato e sovrapposto, più che semplicemente alternato, parallelo o simmetrico. A volte all’interno di una singola scena compare un elemento che la ridefinisce o allude a qualcos’altro che ne arricchisce e ne complica il senso. Lo spettatore deve ogni volta ristrutturare la sequenza degli eventi, il loro significato all’interno della vicenda e specialmente il significato intimo relativo al singolo personaggio di volta in volta in gioco.

: se non hai visto il film, ti consiglio di rimandare la lettura a dopo la visione

I quattro protagonisti

Come in Banks, nel film di Egoyan ci troviamo di fronte a quattro personaggi centrali della storia: Dolores Driscoll, l’autista del bus scolastico uscito di strada; Billy Ansel, il meccanico vedovo che, seguendo col suo pick-up il medesimo bus per salutare i propri figli, vede la sciagura svolgersi a pochi metri da lui; l’avvocato Mitchell Stephens, che si precipita nella cittadina di Sam Dent al fine di organizzare una causa collettiva per presunte responsabilità nel grave incidente; Nicole Burnell, la quattordicenne superstite, restata paraplegica. Questi quattro soggetti, ognuno a suo modo, interagendo le proprie pene tra di loro (e non solo), si cimentano in un tormentato percorso interiore che alla fine li conduce a una sorta di adattamento aspro ma lucido al contesto esistenziale successivo alla tragedia. Come osserva Billy nel romanzo: «Per me e forse per alcuni dei ragazzi che sono sopravvissuti all’incidente […], per noi c’è stata la vita, la vera vita, la vita reale, indipendentemente da quanto brutta potesse sembrare, solo prima dell’incidente, e nulla di quanto è accaduto dopo l’incidente poteva assomigliare a essa per nessun aspetto sostanziale. È come se fossimo morti anche noi, quando l’autobus è uscito di strada… e adesso siamo momentaneamente finiti in una specie di purgatorio, in attesa di essere trasferiti nel luogo dove ci hanno preceduto gli altri morti».

Prendendo dunque in considerazione la prima di queste quattro figure principali, in una delle immagini conclusive di The Sweet Hereafter vediamo Dolores che ha cambiato città e, pur esercitando la medesima professione di autista di bus, tratta solo con passeggeri adulti e li intrattiene con il suo stile cordiale e scherzoso. Le foto che costellano la parete del suo soggiorno sottolineano lo speciale legame coi ragazzi – rilevato anche da Nicole nel flashback della fiera di Sam Dent l’estate precedente e accennato nelle poche scene sull’autobus prima dell’incidente –, come un generoso e ludico cameratismo dove la responsabilità “genitoriale” è comunque esercitata in pieno (anche nel senso di tenere una qualche forma di disciplina: i rissosi sono messi in guardia con la minaccia di andare a scuola a piedi). Nel dialogo con Mitchell emergono in maggior misura i sentimenti e forse anche le fantasie sui bambini che tutte le mattine ha accompagnato a scuola (le osservazioni partecipi e affettuose su Bear Otto e su Sean Walker, la metafora dei mirtilli-berries). Sentitasi giudicata dal suo ambiente di appartenenza – secondo quanto lei “traduce” dalla disartrica dichiarazione di Albert – e con ogni probabilità giudicata anche da un punto di vista formale nell’inchiesta, dopo la testimonianza di Nicole, Dolores si ricicla altrove, ma si direbbe restando se stessa: le frasi di circostanza dette ai passeggeri mantengono qualcosa del tono giocoso utilizzato in precedenza coi ragazzi, anche se sono più artefatte. Tuttavia, come si può apprezzare dal confronto con i discorsi di Wendell Walker (che spettegola malignamente su tutti i concittadini), Dolores resta una donna leale che non dice male di nessuno (si vedano i suoi commenti su Billy e sugli Otto), vive intensamente la perdita e la colpa, si rapporta con tenerezza al marito paralitico – simmetria “complementare” con la paraplegia di Nicole –, e in quell’attimo nel finale dove il suo sguardo incrocia quello di Mitchell fa un cenno di saluto o addirittura d’intesa all’avvocato. Accettazione dell’ineluttabile, in una specie di agnizione tra simili? Come gli altri tre, alla fine Dolores rifiuta, col suo abito mentale di fondo e l’“uso” della comunicazione privata con Albert, il percorso della Rabbia Persecutoria proposto con enfasi da Mitchell Stephens, che al termine dell’incontro con lei si lancia in un’arringa circa la “salvaguardia”della sua immagine e della sua sofferenza. Senza la viscerale intolleranza di Billy o l’amarezza di Nicole, ma in modo altrettanto reciso, Dolores prende le distanze da tutto ciò. Già proveniente dal lutto dell’ictus del marito, con cui attivamente interloquisce, essa è la colpevole ufficiale designata: è lei di fatto la causa della morte di quattordici bambini e dell’invalidità della quindicesima. E,per giunta, porta il fardello di colpa della responsabile sopravvissuta. Ma può tuttora riconoscere se stessa in una logica propria, e forse in un’etica personale: come se le sue istanze morali le consentissero appunto di vedersi in una precaria ma vivibile prospettiva. Malgrado tutto, nel futuro.

Per quel che concerne Billy Ansel, egli parrebbe il personaggio più lucido fin dall’inizio. Verosimilmente perché già aduso a tollerare una perdita incolmabile come quella della moglie adorata, egli, oltre a occuparsi dei due gemelli (bimbi nel complesso sereni a quanto si vede) fa di tutto per svolgere la sua parte di Padre simbolico anche nei confronti di Nicole (la fiducia nel farle fare da baby-sitter, il dono dei vestiti di Lydia – suggerita un’identificazione con una Madre bella e amabile, con una splendida voce? – e la cassetta con gli arrangiamenti delle canzoni. I fari della macchina che illuminano la vetrata di casa Ansel nell’explicit sono probabilmente quelli di Billy, pur alludendo ai successivi di Sam (i due possibili Padri); non è un caso che Nicole decida di mandare in malora l’Azione Legale proprio dopo avere ascoltato la conversazione tra Billy e i suoi genitori: un possibile riferimento a una vera figura Terza strutturante sia nel senso della differenziazione (rispetto all’approccio confusivo di Sam) sia in quello dell’istanza morale (i genitori di Nicole risultano mediocri,“piccoli”, attaccati al miraggio del risarcimento in denaro). Il sobrio meccanico è molto preciso a questo riguardo: offre ai Burnell la somma già ricevuta dalla scuola e si appella ai valori comunitari di Sam Dent. La sequenza del confronto con Mitchell, con le minacce di botte e tutto il resto, è “rimontata” nella traduzione cinematografica: più congrua psicologicamente nella sua risoluzione, anche perché l’avvocato riceve in quel momento la seconda telefonata della figlia. Billy è venuto a guardare il bus ammaccato in una sorta di solenne e privatissimo raccoglimento (si toglie il berretto), quasi come si visita una tomba (cfr. Bouquet, 1997), e la presenza di Stephens è per lui affatto fuori posto. L’atteggiamento di Ansel risulta perciò ancora più esplicito e in certo modo vincente rispetto al romanzo. La sua rabbia contro la malasorte, che gli ha addirittura mostrato la scena dell’incidente da vicino e in tempo reale, non può essere incorporata nel disegno di definizione persecutoria intentato da Stephens: Billy si rifiuta di concedere all’avvocato anche una possibile solidarietà tra padri orbati. Lo lascia lì a vaneggiare da solo, senza replicargli nulla, voltandogli le spalle con un’occhiata di disprezzo. Pure sulla relazione clandestina con Risa Walker il solido garagista si è fatto già in partenza pochissime illusioni, senza peraltro indulgere al cinismo: la storia sembra terminare perché le loro posizioni a fronte della tragedia e della causa promossa da Mitchell sono lontanissime (per l’amante c’è perfino una spiegazione magico/superstiziosa), ma la condivisione affettiva è sempre stata piuttosto limitata. Acuta la riflessione, contenuta anche nel libro, che per Billy i momenti migliori del loro affair fossero quelli dell’attesa al buio, durante i quali egli, fumando, ripensava alla sua vita di prima – un lento, difficilissimo, forse interminabile processo di metabolizzazione della perdita (si veda Kernberg, 2010).

Mitchell cerca di convincere gli Otto, i Walker, Billy, Dolores, Nicole e i suoi genitori che l’ineluttabile non sussista. Cosa che Ansel ricusa da subito. Per lui la morte della moglie e la morte dei gemelli costituiscono una perdita davvero inemendabile: lo era forse già dopo la scomparsa di Lydia, ma con quella dei due bambini la sua sembrerebbe un’esistenza definitivamente spezzata, che, nondimeno, egli si dispone ad assumere con coraggio – non c’è il degrado della sua “nobiltà”, accennato alla fine del libro. Nell’ultima inquadratura che lo concerne vediamo Billy assistere alla rimozione della carcassa del bus con un piglio sempre deciso, concentrato e “rispettoso” (al pari dell’occasione precedente, si è tolto il berretto, come dinnanzi a una tumulazione). Anche per il garagista, a differenza di quanto accade nel romanzo, si tratta di una forte affermazione identitaria, che gli consente di sopravvivere psicologicamente nel hereafter senza infingimenti o manovre oblique. Dei quattro personaggi centrali della storia Billy è quello più radicalmente solo e che accetta virilmente di esserlo.
Per parte sua, l’avvocato, recatosi sul posto senza essere invitato, vuole dare il via, rispetto alla sciagura, a un progetto sistematico e grandioso: mediante esso, infatti, egli intende reintrodurre un senso, e un senso “perentorio” nel vuoto lasciato dall’evento traumatico. Escludere di netto la casualità (l’“accidentale”, the accident), riaffermando onnipotentemente la causalità. Ispirato a una morale primitiva e giustizialista, il programma di Mitchell individua con pervicacia uno o più colpevoli, esportando furori e ambivalenze al di fuori della comunità (e di sé) e rimettendo un ordine “assoluto” e semplificato nel mondo. Grazie al drenaggio della frustrazione e dell’impotenza, tutti gli adulti coinvolti nella causa immaginano di ritrovare una Buona Identità Genitoriale nel vendicare i bambini perduti, onorarne la memoria e ritenere di prevenire simili tragedie (“tutti” i bambini in potenziale pericolo verrebbero salvati). È secondo questo vertice che l’avvocato parla ripetutamente del futuro (con gli Otto, con Nicole): a ristabilire non solo il flusso temporale ordinario, ma altresì un controllo fantasmatico su di esso. Viceversa, dopo la sconfitta del collaudato progetto di diniego in seguito alla deposizione di Nicole Burnell, Mitchell non desiste dall’inseguire la figlia, rinunciando alla collera paranoide che ha caratterizzato tutta la sua condotta a Sam Dent.
Parrebbe comunque un processo graduale: la prima parte del colloquio con Allison sull’aereo è tuttora permeata di rabbia impotente (lo “steaming piss” in cui si è tramutato l’amore paterno). Invece l’episodio della mancata tracheotomia è diversamente contestualizzato rispetto al testo letterario. Viene introdotto da un «Ogni volta che vado a trovare Zoe, mi ricordo…» e non è, come in Banks, l’epitome della Rabbia Lucida e Organizzata: «La stessa dura scossa di intelligenza strutturata». Il racconto dell’avvocato è proposto con la massima asciuttezza che contrasta con le immagini molto “costruite” del cottage in North Carolina (si vedano McGilvray, ibid.; Malanga, ibid.): è quasi tutto un primissimo piano di un intenso ed essenziale Holm, a macchina da presa pressoché ferma. Ovvero, mentre nel romanzo la vicenda relativa a Zoe bambina costituisce la premessa psicologica della Causa Collettiva, in Egoyan farebbe invece pensare a un’ostinata determinazione a non abbandonare la figlia, a restare lì, a continuare a fare il padre per quel pochissimo che gli è ancora possibile, nonostante la caduta di ogni speranza. Anche in questo caso entra forse in campo una riconoscibilità ai propri occhi, un potersi vedere un minimo in prospettiva: dunque, un’accettabilità di sé da parte delle istanze interne ideali e censorie (quelli che secondo la psicoanalisi sarebbero un Superio e un Ideale dell’Io relativamente maturi). L’evocazione del viaggio con la bambina in braccio riguarderebbe la situazione estrema, in cui si è trovato allora e si trova ancora. L’espressione di Mitchell nell’incontro finale con Dolores è di sorpresa e di imbarazzo (e di dolore, quando entra turbato nel taxi), ma non di raccapriccio o collera o vera vergogna; così come il gesto tenero verso Allison che dorme o l’occhiata al padre che discute con la bambina all’arrivo all’aeroporto; infine, merita rilevare che in questa sequenza l’abbigliamento casual dell’avvocato, insolito per lui, somiglia molto a quello consueto di Billy (berretto con visiera incluso). Mitchell – che nel romanzo dichiara di avere amato tantissimo la figlia – nell’assistere al progressivo disgregarsi di Zoe è costantemente confrontato, tramite le telefonate, ma anche nei suoi pensieri – alla perdita di un oggetto d’amore che gli si deteriora sotto gli occhi. La sua risposta fino alla vicenda di Sam Dent pare essere consistita nell’Ergersi a Rappresentante Legale di una Rabbia Collettiva, immedesimandosi con le “vittime” quel tanto che gli consente di orchestrare da abile regista un’universale messa in scena del diniego, consolidato e potenziato dalle rabbie dei singoli clienti.

Il suo motto è: gli incidenti non esistono, c’è sempre qualcuno che, più o meno cinicamente, ha commesso un errore. La sua intelligenza emotiva gli permette, altresì, – con l’eccezione di Billy e di Dolores – di mettersi strazio dei genitori “orfani”, i quali vengono convinti con facilità e rapidità all’azione legale. Quasi che Mitchell Stephens fosse in grado di esercitare su di essi una specie di potente seduzione primitiva.

Infine, Nicole Burnell. È quella che perde il futuro sulla sua pelle, direttamente. Gli altri tre sono adulti, oltre i quaranta, e al contrario vi si misurano in modo diverso, più mediato, simbolico, e dal punto di vista della “genitorialità”: nel senso che il loro proiettarsi nel futuro – la finzione di avere davanti una vita che si dispiega indefinitamente – si realizza tramite la collocazione delle proprie potenzialità nei bambini/figli. Per Nicole, invece, il trauma devastante condensa diversi elementi in modo più invasivo: da adolescente che si affaccia alla vita e fantastica di diventare una folk-singer, adorata da un padre giovanile e immaturo (e da una madre distratta se non connivente), si ritrova su una sedia a rotelle, capace di ispirare solamente compassione. I primi scambi coi genitori – e soprattutto con Sam – sono freddi, scostanti. Nell’incontro con Mitchell Stephens, a casa, Nicole è perplessa, cupa, impietrita: dice di non ricordare quasi nulla.Viceversa, in tutta la sequenza della deposizione si direbbe che prevalga l’amarezza, la malinconia, forse l’angoscia, ma altresì la ferma intenzione di mettere in discussione la trascorsa complicità col padre (con l’inerente corteo di fantasie venute meno) e il rifiuto dell’opzione illusoria suggerita dall’avvocato: gli occhi – bravissima la Polley, ora bambina, ora ragazza, ora adulta –, sovente pieni di lacrime, sono tenuti fissi su quelli del padre, con qualche breve scambio di sguardi col magistrato.
L’identificazione molto letterale con lo zoppino del «Pied Piper» è doppiata dalla voce-pensiero di Nicole che aggiunge alla poesia dei versi suoi. La giovinetta guarda in faccia il dolore per la “promessa” mancata (che include altresì la musica e il sogno della rockstar) e, ancor più, per la constatazione della sua essenza perversa. Sembra esservi soprattutto un bisogno di verità – di nuovo entrano in gioco istanze morali – piuttosto che il desiderio di vendicarsi di Sam; questi sia nella conferenza familiare con Mitchell sia nella conversazione con Billy rivela anche una certa gretta avidità, oltre a convogliare la sua delusione circa il futuro di Nicole e la rinuncia alla storia amorosa con lei nella Rabbia Collettiva Organizzata dall’avvocato.

Mitchell, che è decisamente meno arrogante nel film, non solo ha colto la dissonanza della domanda di Sam sull’entità del risarcimento durante la conversazione preliminare a casa Burnell, ma dopo la deposizione suggerisce allo stesso Sam di interrogarsi sul motivo della falsa testimonianza di Nicole, avendo intuito la complessità della situazione soggettiva della ragazza. Per costei la condizione (castrata) di disabile stronca alla radice alcune grandi aspettative sul futuro, nonché certe potenzialità evolutive, torbidamente intrecciate e invalidate dalle spinte regressive dell’incesto col padre. Un futuro fittizio, quello promesso da Sam, fondato su una mistificazione e su una logica di sdifferenziazione nell’ambito di un tempo circolare: di conseguenza, oltre all’affrontamento del senso di colpa della superstite, c’è quello del trauma incestuoso, costituitosi come tale per Nicole soltanto dopo l’incidente, e che richiede una presa di posizione forte e pubblica. In ciò troviamo di nuovo l’attestazione della Terzeità, secondo un’ottica forse mutuata da Billy e contrapposta all’universo claustrofilico e confusivo di Sam.
Infine, nell’explicit Nicole sembra rivolgersi allo spettatore, come colei che a distanza e dall’alto del dolce domani può compendiare il punto di vista dei quattro personaggi principali. Anzi, si potrebbe ipotizzare che Nicole, con la sua voce off, tra Browning e canzoni folk, abbia implicitamente svolto questo ruolo per tutta la storia e che lo spettatore sia invitato a ripensare l’intero testo cinematografico secondo questa morale conclusiva: considerare la vita di Nicole, di Dolores, dei sopravvissuti e dei morti come collocata nello sweet hereafter – in parte sono le parole di Dolores nell’ultimo capitolo del romanzo –, quel luogo purgatoriale «dove tutto è strano e nuovo». E lontano: come il remoto sorriso sul viso della ragazza, mentre sopra di lei gira la ruota panoramica della fiera di Sam Dent (dopo la deposizione e prima della sequenza dell’aereo). La sola risorsa rimasta ai protagonisti della vicenda in questa singolare dimensione esistenziale dove sono finiti è la lucidità, il non raccontarsela, il restare in contatto a tutti gli effetti con quel superstite brandello di sé. Nel testo di Banks c’è una fondamentale osservazione di Billy: «Quelli che hanno perduto i loro figli si contorcono, assumono le forme più strane per negare ciò che è accaduto. Non solo per via del dolore… ma perché ciò che è accaduto è così perversamente innaturale, così contrario al necessario ordine delle cose che non possiamo accettarlo. È quasi impossibile credere o comprendere che i figli debbano morire prima dei genitori. Sfida le leggi della biologia, contraddice la storia, nega il rapporto di causa ed effetto, viola i fondamenti della fisica. È l’opposizione estrema. Un paese che perde i suoi bambini perde il suo senso».
Oltre al fatto che l’esperienza incestuosa ha conseguenze in gran parte equivalenti, certi lutti sono forse insormontabili e hanno effetti comunque disgregatori sulla mente: il soggetto che sceglie di resistere alla tentazione del diniego può cercare di ridefinire le proprie amputate relazioni affettive, trovando una sorta di intimo accordo con se stesso e magari accedendo a contatti molto limitati e parziali (per Nicole la sorella minore; per Mitchell l’incontro temporaneo con un’amica della figlia; per Dolores il rapporto con Albert e, magari, gli scambi con i nuovi passeggeri adulti; per Billy, il più autonomo dei quattro, non si vede nessuno, dopo la rottura con Risa).

da Cineforum n.502

EDJT Movies ep.16 – The sweet hereafter

7 Mag

CHLOE di Atom Egoyan (2009)

4 Apr

Oltre le superfici delle apparenze di Marzia Gandolfi

: se non hai visto il film, ti consiglio di rimandare la lettura a dopo la visione

Catherine è inquieta. Ginecologa di successo, madre di un adolescente e moglie di un professore, è convinta che l’aereo perso dal marito dissimuli un tradimento. David da parte sua incrementa la gelosia della moglie, incoraggiando con sguardi e ammiccamenti studentesse, cameriere, assistenti. Ossessionata e sospettosa Catherine assolda e retribuisce una giovane escort per sedurre il marito e avere i dettagli di un suo potenziale adulterio. Chloe, spregiudicata nei gesti e abile con le parole, avvia il gioco, approcciando David in un caffè e riferendo a Catherine particolari erotici della consumata infedeltà. Tra incertezze e rivalità, desideri e attrazioni niente è come appare e niente andrà come previsto.
Chloe, come pure le False verità, segnano uno scarto rispetto alla filmografia di Atom Egoyan, accumulando una serie di elementi di potenziale richiamo, anche pruriginosi, che sembrerebbero distinguerlo dal cinema introverso e problematico del regista armeno-canadese. Eppure anche questa volta Egoyan procede costantemente oltre le superfici delle apparenze, insinuando e confermando dietro il glamour, il sesso, la messa in scena della nudità e di rapporti omosessuali, i temi e gli stilemi consueti del suo cinema. Chloe dichiara l’esplorazione del mistero dell’individuo attraverso una composizione non lineare del racconto che rende conto della complessità del reale e della stratificazione temporale dell’esperienza.
Egoyan restringe progressivamente il cerchio d’azione e degli spazi, dalla strada alla casa, dalle architetture avveniristiche e dai paesaggi urbani di Toronto agli interni, mettendo a fuoco l’interiorità di personaggi repressi in pubblico e appagati in clandestinità. Mentre lo spazio viene sottoposto a un graduale processo riduttivo, il montaggio si frantuma con l’innesto di flashback e poi si ricompone a delineare l’interfaccia di passato e presente, di ciò che è stato o di ciò che probabilmente non è mai stato. Emotivamente fragili, perduti, ritrovati o sacrificati, i protagonisti di Egoyan precipitano in una crisi esistenziale e sentimentale che esploderà in un conflitto incrociato ed estenuante. Chloe aderisce a un genere preciso e a una drammaturgia riconoscibile: il family melodrama, territorio ideale e privilegiato su cui insediare personaggi a analizzarli al microscopio. Egoyan mette allora in scena l’amore e l’inganno, le scelte affettive sbagliate e l’inevitabile usura del tempo nei legami, il rimpianto per una perfezione che non esiste in un mondo finito e imperfetto e il superamento dei confini dell’altro, della sua intimità e della sua libertà interiore. Adottando il genere che più di altri simula l’ordine della vita, l’autore non è interessato a spiegare, interpretare o risolvere quanto a rappresentare gli scarti immaginari dei sentimenti.
Il cuore pulsante di Chloe è Julianne Moore, espressione massima di garbo e grazia, eleganza e sofisticazione, risvegliata dal torpore dei sentimenti dalla ninfetta bionda e splendente di Amanda Seyfried. Tra il corpo musicale di Chloe e i sensi inattivi di Catherine si “accomoda” il marito inafferrabile di Liam Neeson, capace di (ac)cogliere il (ritrovato) dinamismo emozionale della compagna e di ricongiungersi a lei dentro un dolce domani.

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EXOTICA di Atom Egoyan (1995)

4 Gen

Morandini: Gli itinerari di cinque personaggi s’intrecciano in uno strip-club (dove vige la regola “guardare ma non toccare”), filmato come un acquario esotico dove nuotano i fantasmi dei più perversi desideri maschili. Le carte sono scoperte, una alla volta, con malizia e soltanto alla fine il puzzle è completo. È una spiegazione che spiega troppo, come in molti gialli a enigma. Il tema centrale è la scopofilia, segno di solitudine ma, per vie traverse, anche di commiserazione affettiva. Arsinée Khanjian, che interpreta Zoe, proprietaria di “Exotica”, era veramente incinta durante le riprese.

Film TV: Exotica è diretto da Zoe, incinta di Eric, che fa il dj. Vi si esibisce Christina, che si spoglia a beneficio di Francis. Poi c’è Thomas… Personaggi stravaganti, atmosfere morbose, narrazione antilineare. Uno dei film più affascinanti di Egoyan.

Mereghetti: (…) costruito come un puzzle sui temi della solitudine, del sesso come simulazione e della memoria. In questo caso il coinvolgimento dello spettatore è più immediato: i diversi filoni narrativi si intrecciano con abilità e il gioco delle apparenze è condotto con malizia… Come specchio dei tempi il film di Egoyan (che scivola nel cattivo gusto solo quando mostra sua moglie, l’attrice Arsinée Khanjian, incinta) è comunque esemplare.

CALENDAR di Atom Egoyan (1993)

12 Dic

Film TV: Il rapporto tra una donna e suo marito, un fotografo, che sta realizzando un calendario con le illustrazioni di antiche chiese armene. La donna si innamora della guida, e lui potrà solo ricostruire la storia a posteriori, sulla base dei video di viaggio. Il regista di Black Comedy tra ricerca delle radici etniche e critica dell’istituzione familiare, mezzi di comunicazione invadenti e deriva dei sentimenti.

Morandini: Un fotografo canadese e sua moglie, di origine armena, si recano nella patria degli avi per fotografare antiche chiese. La donna s’innamora di una guida locale, ma il fotografo se ne rende conto soltanto quando, rientrato in Canada, esamina i video che ha realizzato. Film in cui Egoyan affronta direttamente le sue origini armene e vi compare come attore, anzi protagonista. Opera di transizione tra la sperimentazione concettuale del periodo giovanile e una narrazione più classica e semplice, ma sempre tesa alla forza delle immagini. I suoi personaggi corrispondono ai tre livelli dell’identità armena: l’autista rappresenta quella nazionalista; la traduttrice quella della diaspora; il fotografo (Egoyan) quella degli armeni integrati in un’altra cultura. Non a caso ha filmato Samuel Beckett in Krapp’s Last Tape (2000).

Mereghetti: La metafora non potrebbe essere più chiara: chi ha gli occhi incollati all’obiettivo non vede niente. Egoyan sintetizza i suoi temi tipici (i sentimenti nell’epoca della riproduzione tecnica, la perdita delle radici, l’incomunicabilità fra sessi) con un tocco di autoironia che nei film precedenti latitava e si districa agilmente in un puzzle di passato  presente, cinema e video, finzione e realtà. Il medium privilegiato, questa volta è comunque il telefono, presenza invadente che non fa che ricordare al protagonista la sua solitudine. Non per tutti i gusti o per chi si aspetti una storia chiara e lineare, ma non si tratta neanche di sterile accademismo d’avanguardia.

THE SWEET HEREAFTER di Atom Egoyan (1997)

10 Dic

Morandini: Non è un film di denuncia sociale né un dramma giudiziario o una detective story. I suoi temi sono altrove: la sopravvivenza a una tragedia familiare, l’elaborazione del lutto, il senso di colpa degli adulti quando un bambino muore, la convivenza con il dolore. Da un romanzo di Russell Banks, Atom Egoyan ha tratto il suo quinto e più maturo film, girato in Cinemascope come per prendere le distanze da una materia incandescente nel suo dolente pathos. Gran Premio della Giuria a Cannes.

Film TV: (…) è la storia intrecciata delle innumerevoli “stragi d’innocenti” che la nostra civiltà continua a perpetrare: stragi letterali, come il volo nell’abisso di un autobus scolastico, ma anche le stragi soffocate e individuali. Immerso nella neve e nel verde e azzurro del paesaggio canadese, è percorso dall’anima in pena Ian Holm, un attore che fa star male con i suoi occhi tristi e al quale tocca il lungo primo piano di una telefonata straziante con la figlia. Un film doveroso e doloroso, retto nei suoi continui intrecci temporali dalla regia impeccabile, sinuosa e mai autocompiaciuta di Egoyan, che dimostra di saper passare dalle sue ossessioni personali alla suggestione di una tragedia universale, sul filo di una delle “fiabe” più agghiaccianti del mondo, “Il pifferaio di Hamelin”.