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IL BIDONE di Federico Fellini (1955)

25 Mar

Morandini: Augusto, anziano bidonista che sente la miseria e l’abiezione del suo mestiere truffaldino. Dopo I vitelloni e La strada, Fellini ne riprende molti motivi tematici (solitudine, bisogno di comunicazione e di amore, desiderio di salvazione, la Grazia) e stilistici (passeggiate notturne, giostre di periferia, paesaggi dell’Appennino). È il più cupo e disperato di quest’ideale trilogia, e il meno riuscito a livello strutturale per un’incertezza tra il racconto di ambiente picaresco e la concentrazione drammatica su Augusto che punta sul tragico e scivola nel patetico. Memorabili almeno due sequenze: la festa di Capodanno nella casa del bidonista ricco e la truffa a danno dei baraccati, coincisa e feroce quanto l’altra è insistita e sarcastica. Scritto con Flaiano e Pinelli. Dopo le sfavorevoli accoglienze alla Mostra di Venezia, Fellini lo rimontò con M. Serandrei, riducendolo di 20´ e mutandone radicalmente il ritmo. Restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2002 in una versione quasi identica a quella “veneziana”.

Farinotti (mymovies): I personaggi principali son tre: Augusto, Roberto e Picasso. Sono truffatori da quattro soldi. Augusto ha una figlia deliziosa che non vede mai, Picasso una moglie sottomessa e disperata. Roberto, assolutamente cinico, è forse il peggiore di tutti, pensa solo a imbrogliare e alle donne. Fellini era al sesto film e aveva trovato la sua identità riconoscibilissima. Pochi anni dopo, con La Dolce vita avrebbe fatto l’ultimo salto di qualità. Ma la poesia c’è tutta, e ci sono i contenuti ancora robusti dell’età migliore, quella dell’energia. Augusto porta sua figlia al cinema, è contento, possiede un valore che aveva persino dimenticato, ma al cinema viene riconosciuto da qualcuno che aveva truffato, e finisce in prigione. E la figlia assiste a tutto. Inserito temporalmente fra Le notti di Cabiria e La strada, storie di squisito mondo e di fantasia felliniana, il film è una sorta di intervallo di realismo, ultimo richiamo in questo senso. Amaro e vedibile a posteriori, va rivalutato rispetto a una critica che lo ha inteso come “opera minore”.

Film TV: Augusto è un truffatore di modesto calibro che agisce in società con Roberto e Picasso… Un anno dopo “La strada“, Fellini realizza un film meno “poetico”, più aspro, ma con un fondo non meno religioso; è uno dei film meno amati del regista, ma oggi è assolutamente da rivalutare. Indimenticabile l’interpretazione di Broderick Crawford (che pare recitasse costantemente ubriaco), straziante il finale.

THE SEVEN YEAR ITCH di Billy Wilder (1955)

1 Gen

Morandini: Il desiderio del settimo anno. Rimasto solo in casa (la famiglia è in villeggiatura), funzionario editoriale è messo a dura prova dalla procace e svampita vicina di casa. Resisterà la sua virtù? Commedia satirica sulle ossessioni erotiche dell’americano medio con cui Wilder traccia una feroce critica del consumismo e dei miti del mezzo secolo sulla scorta di una commedia (1952) di George Axelrod di cui mantiene l’impianto teatrale, pur facendone il film più metacinematografico della sua carriera con frequenti citazioni e rimandi parodistici ad altri film. Una delle migliori interpretazioni di M. Monroe.

Mereghetti: (…) il film prende di mira le ossessioni erotiche dell’americano medio, maschio cacciatore come gli indiani del prologo, ma inibito e represso: di fronte alle tentazioni, l’Uomo Qualunque del Ventesimo secolo si rifugia nell’immaginazione (da antologia la scena del corteggiamento al rittmo del Concerto n.2 di Rachmaninov, ironica citazione della colonna sonora di Breve incontro e la fantasia di baciare la preda “rapidissimo e vorace”) permettendo a Wilder di mettere a nudo l’immaginario collettivo, cinematografico per il protagonista (da Il mostro della laguna nera a Da qui all’eternità) e televisivo consumistico per il figlio (il costume spaziale) e stigmatizzandone con ironia tutti i luoghi comuni. Meraviglioso tramite tra realtà e fantasia è Marilyn Monroe, mito allo stato puro che gioca a fare la caricatura del suo personaggio di svampita irresistibile. Realizzato quando era ancora in vigore il Codice Hays di autocensura, non arriva a rendere esplicito l’adulterio, ma lo assume come oggetto di divieto e di desiderio attraverso spostamenti simbolici (il dito continuamente intrappolato, la pagaia e il pattino del figlio) che offrono spunti per gag irresistibili.

Film TV: Nell’afa di Manhattan, mentre moglie e figlio sono in vacanza, Richard Sherman conosce la vicina del piano di sopra. Richard non è insensibile al fascino della ragazza, ma è anche un americano medio, per di più geloso della moglie che nel luogo di villeggiatura ha ritrovato un vecchio corteggiatore. Uno dei capolavori di Wilder, un’indagine geniale sulla psicologia del maschio occidentale e sui desideri indotti dai mass-media. Ritmo tra i più perfetti che abbiano abitato lo schermo. Marilyn con la gonna che si alza sulla grata della metropolitana è entrata a far parte delle immagini-simbolo di questo secolo.

ORDET di Carl Theodor Dreyer (1955)

28 Dic

Farinotti (mymovies): Per capire Dreyer occorre collocarlo in due quadri, di tempo e di luogo. Come tutti i nordici, a cominciare da Bergman, quando sono protestanti lo sono rigorosamente, e in profondità. Il problema di Dio è presente continuamente, soprattutto nell’arte. Dreyer si era fatto incantare dal dramma Ordet di Munk, lo scrittore ucciso dai nazisti, e dalla sua forza surreale e paradossale. Il regista era anche uno studioso di scienze e filosofia; conosceva la teoria della relatività di Einstein che descriveva altre realtà oltre le dimensioni a noi conosciute. Dalla relazione tra questa teoria e il problema Dio nascono scene come la resurrezione. La scienza serve per entrare nel soprannaturale. Dreyer è titolare di un rigore espressivo che non trova uguali in nessun autore di tutto il cinema. I temi di Dreyer, le sue paure, le sue soluzioni, e anche il suo stile, non fanno più parte del nostro tempo e delle nostre idee, tanto veloci nel manifestarsi quanto nel passare.

Film TV: In una fattoria dello Jutland vive il vecchio Borgen con i suoi tre figli: Mikkel, sposato con Inger, in attesa del secondo figlio, Johannes, diventato pazzo a causa degli studi di teologia, e Anders, il minore, innamorato della figlia del sarto del villaggio. Pur rispettandone la lettera, Dreyer trasforma il dramma del pastore protestante Kaj Munk, teso all’esaltazione della parola divina, in un poema laico di affermazione della “vita” in tutte le sue accezioni, incluso il mistero più profondo. Il finale è una vetta sublime della rappresentazione del sacro nel cinema. Leone d’oro a Venezia.

Morandini: Dal dramma La parola (1942) di Kay Munk: penultimo film del grande regista danese, è un’opera di liturgica e solenne bellezza, girata quasi per intero in interni in un’astratta dimensione spazio-temporale che non esclude né l’approfondimento dei personaggi né la cura dei particolari. “La fede dei semplici – dice Dreyer – muove le montagne e resuscita i morti perché è fede nella vita e nell’amore“. Il conflitto tra due diversi modi di intendere la religione (e la vita), costante nel cinema di Dreyer, trova qui una delle espressioni più intense nell’uso dello spazio stretto e chiuso che trasforma la fattoria di Borgensgaard (nello Jutland) in un’anticamera fantastica dell’invisibile, riscattando la verbosità un po’ ripetitiva dei dialoghi.

Mereghetti: La parola, o meglio il verbo evangelico è protagonista del film, dove i temi della follia e della comunione col divino, già presenti in La passione di Giovanna d’Arco, tornano con uno stile austero ed essenziale, ma pieno di una straordinaria tensione: un ritmo lento e cadenzato, che si appoggia su lunghi piani fissi e lente panoramiche, dà al film un andamento ipnotico che ottiene lo scopo di concentrare l’attenzione dello spettatore su piccole porzioni di spazio (un viso, l’interno di una casa ordinato e pulito, i pochi gradini di una scala) così da permettere allo sguardo di cogliere l’essenza delle cose. Dreyer ha una capacità di afferrare il mistero e l’orrore della morte che suscita una reale commozione.

THE MAN FROM LARAMIE di Anthony Mann (1955)

12 Dic

Morandini: Quinto e ultimo film di Mann con Stewart, scritto da Philip Yordan e Frank Burt che gli hanno dato una struttura da tragedia classica sulla fine di una potente e corrotta famiglia. Una dose di violenza maggiore del solito, dialoghi piccanti, un ottimo uso dei paesaggi del New Mexico. Il sapiente gioco dei conflitti psicologici in un mondo primitivo ha un’insolita attendibilità storica. 1° film in Cinemascope di Mann.

Film TV: Il capitano Lockhart deve stroncare un traffico d’armi che qualcuno vende agli Apaches. Un classico del genere, quasi una tragedia classica, diretto da un regista che è uno dei più grandi narratori dell’epopea western e con interpreti che lavorano al meglio. Da un romanzo di Louis L’Amour. (La pellicola dice “based upon the Saturday Evening Post story by Thomas T Flynn ndr).

Mereghetti: (…) questo film riassume tutti i grandi temi del regista portandoli alla forma più esasperata: in primo luogo la presenza della violenza che tocca punte sadiche, poi nell’ossessione della vendetta e l’ineluttabilità del destino, che trova la sua rappresentazione perfetta nel sogno ricorrente di Alec, tragica rilettura in chiave western del dramma di Re Lear tradito dai suoi tre figli. A sottolineare la dimensione tragica c’è anche la mancanza totale di itinerario (ma non di partecipazione della Natura al dramma, grazie a un uso epico del cinemascope). Tutto si svolge con l’arrivo di Will (James Stewart) perché per gli eroi di Mann segnati da un passato enigmatico e attratti da un futuro elusivo non c’è che una scelta: il presente dell’azione. Assolutamente definitivo.