di Francois Truffaut da Cahiers du Cinema (intorno al 1955)
Si parla sempre di divi e di registi, dei gusti e disgusti degli uni, delle manie degli altri. Eppure, ai margini del cinema, esiste una professione ingrata, difficile e poco nota: quella di “critico cinematografico”. Che cos’è il critico? Cosa mangia? Quali sono i suoi usi, i suoi gusti e le sue manie? L’articolo che segue ha lo scopo di far conoscere meglio questo artigiano disinteressato che lavora all’ombra delle sale cosiddette oscure.
L’apparato finanziario e pubblicitario del cinema e il prestigio dei divi sono tali che la critica, anche se unanimemente sfavorevole, non potrebbe mai arrestare la marcia verso il successo di un brutto film dal grosso budget.
La critica è efficace solo nei confronti dei filmetti ambiziosi ma privi di grossi divi.
Citerò due esempi opposti che rappresentano due “casi limite”: Le pain vivant e La strada. La sorte di questi due film dipendeva unicamente dal giudizio della critica. Il primo è stato unanimemente stroncato e, di conseguenza, ne è stato bloccato lo sfruttamento commerciale. Non sarà facile che a Jean Mousselle, il regista di Le pain vivant, sia affidata in futuro la regia di un altro film. Quanto a La strada, che sappiamo aver battuto tutti i record di “affluenza nelle sale cinematografiche”, senza la critica non avrebbe tenuto il cartellone per più di tre settimane; renderà invece dieci o quindici volte di più di quello che è costato.
1. Il critico si culla nell’ignoranza totale della storia del cinema. Facile rendersene conto grazie al remake. Se il remake è annunciato ufficialmente, il critico (per sembrare edotto) scriverà che il vecchio film è stato “ripreso inquadratura per inquadratura”, cosa che non si è mai verificata. Se il remake non è annunciato, il critico non se ne accorgerà. (Esempi: Prigionieri della palude di Negulesco era il remake di L’étang tragique di Jean Renoir o La lancia che uccide di Dmytryck quello di Amaro destino di Mankievicz). Del resto il critico, prima di scrivere il suo pezzo, consulta spesso le storie del cinema: siccome queste brulicano di errori, lui li riporta. Il mese scorso numerosi colleghi, fra cui Jean Dutourd (Carrefour) e Francois Nourissier (NNRF) hanno attribuito Vulcano di Dieterle a Roberto Rossellini: avevano semplicemente trovato questa informazione errata nella “Storia del Cinema” di Georges Sadoul. Si intuisce che se il critico ricopia errori materiali, non gli ripugna neanche di spacciare per suoi dei giudizi che non valgono più della documentazione che li accompagna. Sempre Georges Sadoul (Les Lettres Francaises) attribuiva al grande operatore Robert Burks la paternità di Il delitto perfetto.
2. Il critico cinematografico ignora non solo la storia della sua arte, ma anche la tecnica. Quanti critici sanno cos’è un raccordo nello stesso asse o una panoramica veloce? Naturalmente non sono tenuti a saperne molto al riguardo, ma perché fingere di capirci qualcosa? Alcuni esempi:
Georges Charensol (Les Nouvelles littéraires) si stupiva che si proiettasse su uno schermo normale Gli uomini preferiscono le bionde che, secondo lui, era un film in cinemascope. Il mio illustre collega avrebbe dovuto sapere:
a) questo film è stato girato prima del cinemascope
b) se fosse stato girato in cinemascope, non si potrebbe proiettarlo diversamente
Il film di Hitchcock Nodo alla gola comporta in tutto cinque inquadrature; Il delitto perfetto dello stesso Hitchcock ne comporta circa quattrocento, cosa che non ha impedito a Louis Chauvet (Figaro) di scrivere: “Il delitto perfetto è un’opera poliziesca filmata come Nodo alla gola, tutta d’un fiato o quasi”. Ho mostrato a parecchi colleghi quest’altra recente frase di Louis Chauvet; poiché nessuno è riuscito a darle un significato, la offro alla perspicacia dei lettori: “Aggiungo che un regista desideroso di fare del cinema puro (?) avrebbe sicuramente preparato e poi sfruttato in modo più energico gli episodi angoscianti, con un’altra disposizione delle luci(?) e senza nuocere all’autenticità”.
Louis Chauvet confonde forse il regista con l’elettricista?
3. Il critico si definisce per la sua totale assenza di immaginazione, altrimenti farebbe film invece di discuterli. Da qui il disprezzo che professa per l’immaginazione degli altri.
Quante volte ci si accorge che ha scritto: “A parte una breve scena di pesca al tonno, niente di interessante in questo film”, oppure: “L’autore avrebbe dovuto rinunciare al suo intrigo a favore di un documentario sulle farfalle”. Insomma il trionfo di Frison-Roche su Balzac e di Norbert Casterets su Stendahl. Jean-Jacques Gautier è il campione di questo tipo di critica.
4. Non si fa una carriera di critico senza incontrare prima o poi Delannoy, Decoin, Cayatte o Le Chanois, mentre Mankiewicz, Hitchcock, Preminger, Hawks sono a migliaia di chilometri. Ne consegue una sorta di sciovinismo più o meno consapevole.
André Lang (France Soir) come critico non è il migliore, è in compenso di gran lunga il più “patriottico”; leggendolo regolarmente, ci si accorge che niente di ciò che è francese gli è indifferente; ecco qualche critica:
Vacanze d’amore: “Questo villaggio magico di tela e di sole tutto profumato di aria marina…”
Oasi: “Il risultato incanta l’occhio…”
Porto proibito: “Un film abbondante e dinamico…”
Scalo a Orly: “Commedia condotta con abilità e intelligenza…”
Gli evasi: “…questo commovente successo giustamente onorato dal Gran Premio del cinema francese…”
Futures vedettes: “Un soggetto d’oro trattato con spirito.”
Si potrebbe pensare che André Lang, incoraggiando i lettori di France Soir ad andare a vedere tutti questi film, ha solo il torto di essere troppo indulgente; ma ecco cosa scrive di La contessa scalza, film americano che incuriosisce molto, quando non entusiasma: “Il film è ancora più stupido del titolo”. Argomentazione, direi molto debole e perentoria.
Razzia sur la Chnouf, di cui André Lang ha cantato le lodi ha forse un titolo più intelligente? E cosa pensare di un lavoro teatrale che si intitolasse Fragile?
5. Il critico è insolente e saccente. Roger Régent, dopo aver visto Rififi, voleva consigliare a Dassin di tagliare un quarto d’ora della rapina scientifica. E cosa resterebbe di La carrozza d’oro se ognuno di questi signori avesse potuto tagliare questa o quella scena che lo disturbava o quella inquadratura che gli sembrava noiosa?
La critica cinematografica ha i suoi luoghi comuni: se quel film fosse firmato Tal dei Tali, nessuno griderebbe al capolavoro, oppure: il rigore protestante di Jean Delannoy o anche: Fernandel, attore tragico…
La critica funziona secondo la “legge dell’alternanza”; secondo Giraudox: “Non ci sono opere, ci sono solo autori”; per il critico cinematografico è esattamente il contrario: non ci sono autori e i film sono come la maionese, o riesce o non riesce. Qui interviene la legge dell’alternanza. Alla critica piace sistematicamente un film di Jean Renoir su due.
6. Il critico che ignora la storia del cinema e la sua tecnica, che non sa nulla sulla costruzione di una sceneggiatura, può giudicare soltanto sulle apparenze, segni esteriori dei desideri del regista.
I critici giudicano i film dalle “intenzioni” dei loro autori. La loro ignoranza della storia e della tecnica cinematografica, come anche delle condizioni di scrittura dei film e della loro esecuzione, fa sì che essi (i critici) siano incapaci di risalire alle intenzioni, a meno che queste non siano evidenti, annunciate sul cartellone, all’ingresso della sala cinematografica. Incompetenza e pregiudizio formano una bella coppia. Si tratta quindi di giudicare sulle intenzioni di film di cui non si riesce a ritrovare le intenzioni!
7. Il cinema, come del resto tutte le arti, diventa troppo complicato per cervelli che hanno dato il meglio di sé nel 1925. Non ci sarebbe da stupirsi se assistessimo fra poco alla fine della critica. Jacques Lemarchand ha confessato di non aver capito nulla dell’opera Le maitre et la servante. André Billy ha confessato la sua perplessità davanti a Les Portes Dauphines e Emile Henriot (dell’Académie Francaise) la settimana scorsa confidava ai lettori di Le Monde che dopo due letture successive di Le voyeur, si sentiva incapace di raccontarne il soggetto. A quando questa franchezza nei nostri colleghi del cinema? Chi confesserà di non aver capito tutto di La contessa scalza?
Allo stato attuale delle cose, non è il caso di deplorare l’impotenza della critica cinematografica rispetto all’onnipotenza della critica drammatica. In realtà, quando un critico cinematografico esce dal cinema, non sa cosa pensare di cosa ha appena visto; elemosina un parere dai colleghi: il primo che parla ha ragione, quello che sa trovare una bella “formula” trionfa.
Con un po’ di abilità, un critico intelligente che desideri lanciare un film “difficile”, può riuscirci scrivendo il suo pezzo prima degli altri. Nei loro articoli ritroverà, adattata se non ripensata, l’essenza della sua argomentazione. Recentemente un caso del genere si è verificato per un ottimo film di cui non posso dare il titolo. Curioso esercizio, curiosa professione. In verità vi di dico: “Non date troppa importanza ai critici!”
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