Alessio Gradogna: Bellamy è il film con il quale il maestro Chabrol ci ha salutato, prima della sua scomparsa. Un giallo-noir che vive del respiro a cui il cineasta francese ci ha abituato nel tempo, e che va a costituire un epitaffio sarcastico, disilluso e tanto, tanto affascinante. Tra Nimes e Montpellier, si racconta la storia di un commissario parigino, interpretato da un trattenuto e sempre carismatico Gerard Depardieu, il quale si trova a lottare con un fratello nullafacente e autodistruttivo, e nel contempo indaga su un caso di omicidio/suicidio. Un film sottile, mellifluo, ironico e ricco di sfumature, che va a costituire l’ultimo e prezioso tassello di un percorso autoriale che per oltre quattro decenni ha saputo scavare nelle pieghe dell’animo umano con classe pura e cristallina. Una pellicola preziosa, che scivola con dolcezza verso la sua amara conclusione, nella quale il regista ci da il suo addio attraverso una frase splendida e più che mai rappresentativa del suo cinema: “ho trovato una grande forma di dignità nel disprezzare me stesso“.
Giancarlo Zappoli: Come ogni anno in estate (e nonostante il desiderio della moglie Françoise che vorrebbe andare in crociera) il famoso commissario Bellamy si trasferisce da Parigi a Nimes. Qui viene posto sotto indiscreto assedio da uno sconosciuto il quale ha un segreto da rivelargli. Curioso com’è il commissario non resiste agli inviti dell’uomo e viene così a conoscenza di elementi che possono fare luce su un incidente stradale avvenuto in circostanze non del tutto chiare. Nel frattempo il fratello minore, alcolizzato e rancoroso, lo raggiunge creandogli non pochi problemi.
Claude Chabrol apre il film con un omaggio a ‘due Georges’ che hanno contato molto per lui. Uno è il cantautore Georges Brassens dalla cui tomba il film prende le mosse e l’altro è Georges Simenon alle cui atmosfere il regista vuole rifarsi. La provincia, con i suoi più o meno inconfessabili segreti, ha spesso attirato la sua attenzione e ora vi ritorna lavorando per la prima volta su uno dei monumenti del cinema francese, Gérard Depardieu, al cui personaggio offre elementi attingibili dal temperamento di entrambi (regista e attore). Ne emerge un ritratto complesso e tenero al contempo di un uomo che vorrebbe potersi abbandonare alla fiducia più totale (vedi l’erotica ma anche disarmata attrazione per la moglie) e che invece ha fatto del sospetto l’elemento di base della propria brillante resa professionale. Nel momento in cui un misero Mattia Pascal provinciale tenta il colpo della sua vita perché invaghito di una manicure che sa come manipolarne la debole personalità Bellamy si ritrova anche ad indagare su se stesso e sul proprio ruolo di fratello maggiore. È sicuramente più arduo portare a soluzione i ‘casi’ che segnano la propria vita che non quelli altrui. Il commissario avrà modo di accorgersene pagando di persona. Depardieu gli mette a disposizione la sua fisicità ingombrante da cui emana però un fascino intriso di dolcezza e di rabbia repressa, di luci e di ombre che solo un attore giunto ormai da tempo alla piena maturità espressiva riesce a rendere con tanta apparente naturalezza.
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