Morandini: Scritto da Gilbert Adair, liberamente tratto dal suo romanzo The Holy Innocents (1989, Santi innocenti e sognatori, 2003). Parigi, febbraio 1968. Durante una manifestazione di protesta per l’allontanamento di Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque Française, lo studente nordamericano Matthew fa amicizia con i gemelli Isabelle e Théo che l’invitano a trasferirsi nel loro appartamento, lasciato libero dai genitori in vacanza. Il rapporto fra i tre – legati dalle stesse passioni (cinema soprattutto, musica rock, politica, la rivolta nell’aria degli anni ’60) – si fa sempre più stretto e trasgressivo, rivolto ai fleurs du mal del principio del piacere. Quando un sasso rompe il vetro della finestra dove dormono (“La rue est entrée dans la chambre” dice Isabelle) i tre scendono in strada. Varcata la soglia dell’alta età, Bertolucci si volta indietro a rievocare, con nostalgia corretta dalla lucidità critica, la sua giovinezza di cinéphile, i soggiorni parigini degli anni ’60 (i primi, non gli ultimi), i bollori dell’impegno politico, la ricerca di identità. Lo fa raccontando “di due che non riescono a cessare di essere uno e di uno che non riesce a smettere di essere (scisso) in due” (Gianni Canova). Ci riesce nel finale. La goffaggine dei personaggi intacca anche il resto. Gli è sfuggito (non ha approfondito) il suo nucleo tragico. Si chiama Isabelle, non a caso l’unica sfiorata dall’idea della morte che rimanda a quella della Mouchette di Bernanos-Bresson. È la vera vittima del rapporto simbiotico e regressivo che la lega a Théo e che per lui è poco più di un giuoco da snob: per Isabelle è un amore impossibile, una passione abortita. Fotografia: Fabio Cianchetti premiata con un Globo d’oro. Con la supervisione di Janice Ginsberg, le canzoni hanno la funzione di manifesti d’epoca.
Giancarlo Zappoli: Bertolucci torna a raccontare di un mondo medio borghese che ben conosce ma che non è rappresentativo del ’68 e delle sue rivolte politiche e sessuali. C’erano anche loro, è vero, e probabilmente oggi stanno dall’altra parte ma il film non lo dice. Preferisce attardarsi sui giovani corpi nudi lasciando spazio a una frigida ricerca estetica. Per molti di quelli che non c’erano è una lettura consolatoria fatta da un Maestro che forse ha dimenticato i veri, per quanto confusi, sogni di quella generazione.
Film TV: Parigi, 1968: rimasti soli mentre i genitori sono in vacanza, Isabelle e Theo invitano a casa loro Matthew, un americano che hanno appena conosciuto. I sognatori di Bertolucci sognano al chiuso, nelle prime file della sala cinematografica e in una bella casa vuota: si raccontano le insofferenze della borghesia illuminata francese e della piccola borghesia americana, che con la tolleranza pacifista cerca di ritrovare l’innocenza perduta. Sognano e sanno che non sarà mai più così, più maturi dei loro corpi, più antichi delle immagini del “loro” cinema. Aperto dal dolly che discende dalla Tour Eiffel (e che si ripete in analoghi movimenti fuori dall’ascensore della casa dei ragazzi), accompagnato da una colonna sonora di “etimologica” precisione e di istantaneo calore emotivo (Jimi Hendrix ed Edith Piaf, i Doors e Françoise Hardy), The Dreamers è girato con la leggerezza del cinema che negli anni ’60 scopriva il mondo, con le fughe di Bande à part e le ingenuità di Pierrot le fou e di Partner, con la voglia di sporcare lo schermo con un pezzo di autobiografia felice, di raccontare che l’unica via di uscita è il suicidio, come per Mouchette, ma che a volte, un colpo d’aria, un sogno che per un istante si materializza, ti può fermare. E la voglia di non dimenticare e di non rimpiangere niente.
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