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LOST HIGHWAY di David Lynch

30 Nov

dal PressBook del film: “Se questo film potrebbe aver avuto luogo da un’altra parte? Forse si, ma non sono sicuro di come sarebbe potuto riuscire. Gli spazi, la luce, le distanze; tutte queste cose vengono dalla consapevolezza che del fatto che tu sei in cerca di cose per sviluppare al meglio le tue idee. Per me Los Angeles era il posto adatto. Pete and Fred vivono le stesse situazioni, ma le vivono in modi differenti. Sono entrambi vittime in modo differente dei loro mondi. Metà film è immagine, l’altra metà è suono e devono interagire. Continuo a dire che ci sono una decina di suoni che possono risultare funzionali e se trovi uno di quelli, ci siamo. Ma ce ne sono a migliaia che non vanno bene… quindi devi continuare a lasciare che ti parlano fino a che non lo senti.

trad. Daniele Torri

ERASERHEAD di David Lynch (1977)

2 Set

Mereghetti: Un uomo, stralunato e praticamente minorato psichicamente, e la sua compagna hanno un figlio. La creatura è mostruosa ma l’uomo cerca di allevarla. L’allucinante trama è di fatto indescrivibile: quel che conta, in quest’opera prima di Lynch, sono le scene surreali e gli incubi, che si inseguono senza soluzione di continuità con una realtà possibile. Le figure di contorno (memorabile l’uomo dei polli meccanici) aggiungono, se possibile, ancor più angoscia. Lynch, che ha girato in forma semiamatoriale e in un bellissimo e molto contrastato bianco e nero, lascia intravedere le doti di grande regista che confermerà nelle opere successive.

Morandini: Definito dal regista (cui costò 4 anni di lavoro e poche migliaia di dollari) “un sogno di cose oscure e inquietanti“. Un incubo popolato di incubi: il giovane Henry dai capelli ritti a presbitero; l’epilettica Mary che partorisce un mostriciattolo con la testa di un coniglio scuoiato; un teatrino tra gli elementi di un radiatore; la testa di Henry che si stacca dal corpo ed è portata in una fabbrica per farne gommini per cancellare; la testa del neonato che galleggia nell’aria… In bilico tra espressionismo e surrealismo, è un microcosmo formale autonomo sotto il segno della sterilità e della corruzione che evita simbolismi, allegorie, interpretazioni psicoanalitiche e ispira una sorta di angoscia metafisica e di paura ripugnante. Il linguaggio è classico, ma Lynch ne fa un uso aberrante nella dilatazione dei tempi e dei suoni. Straordinario, ingombrante, intollerabile, divenne un film di culto nei cinema di mezzanotte.

THE STRAIGHT STORY di David Lynch (1999)

2 Ago

Film TV: Il vecchio Alvin Straight ne ha viste davvero tante, negli anni trascorsi sulla strada e in quelli passati sul prato di casa e nel drugstore dietro l’angolo. Un giorno prende il tagliaerba e parte, attraversa a passo di lumaca strade, campi di mais, cieli, il Mississippi per riconciliarsi con il fratello che non vede da troppo tempo. C’è eccome l’orrore, in “Una storia vera“; ma c’è anche la saggezza che, più o meno, ci fa tirare avanti e invecchiare; c’è la tristezza lancinante sul volto di Sissy Spacek che guarda fuori dalla finestra e rivede sempre un bambino sul prato. È bellissimo. Elementare (nel senso più alto del termine). Straordinario Richard Fansworth, scandalosamente non premiato a Cannes e morto suicida un anno dopo l’uscita del film.

Morandini: Per visitare il fratello infartuato Lyle, con cui non parla da dieci anni per una lite, il 73enne Alvin Straight – che cammina con due bastoni e non ha patente – parte su un tagliaerba con rimorchio da Laurens (Iowa) per Mount Zion (Wisconsin), distante 317 miglia (circa 500 km). Opus n. 8 di Lynch, prodotto dalla montatrice Mary Sweeney (che firma la sceneggiatura, ispirata a una storia vera, con John Roach) anche con finanziamenti francesi, è il film più controcorrente e meno hollywoodiano degli anni ’90. È un road movie che ha tutto per essere fuori moda: lentezza (10-15 km all’ora), malinconia della vecchiaia, scrittura di classica semplicità, personaggi positivi, ritmo disteso senza eventi drammatici. Pur ribaltando la propria prospettiva (in una logica taoista Una storia vera sarebbe lo yang, il precedente Strade perdute lo yin), Lynch non altera il suo inconfondibile stile: lascia allo spettatore il tempo di pensare, commuoversi, immergersi nei colori del paesaggio, guardare un temporale e il cielo stellato. “Straight” sta per diritto, semplice, onesto ed è anche il cognome del protagonista. Attivo nel cinema come comparsa dal 1937, ancora bambino, poi stuntman, R. Farnsworth passò a parti di caratterista nel 1963, ebbe una nomination all’Oscar per Arriva un cavaliere libero e selvaggio (1977) e una per questo film.

EDJT Movies ep.12 – Eraserhead

7 Mag

INLAND EMPIRE di David Lynch

4 Mar

Conversazione con David Lynch a cura di Fulvio Baglivi, Federico Ercole, Lorenzo Esposito, Donatello Fumarola

L’impressione netta è che INLAND EMPIRE attraversi e oltrepassi il cinema, e si ritrovi in un territorio a cui è difficile dar nome, che ha a che fare con l’esperienza nuda, annullando la tradizionale forma del film e più in generale del cinema (bisognerebbe risalire direttamente a Lumière per trovare la stessa flagranza, lo stesso nesso temporale che si fa immagine). Vorremmo sapere come lei stesso vede, ora, INLAND EMPIRE, e come è nato o da cosa è nato.

Non saprei. Ho realizzato INLAND EMPIRE in modo diverso rispetto ai miei precedenti lavori e rispetto a come si fa il cinema normalmente. Non solo perché l’ho girato in DVcam, ma anche per il modo in cui sono nate le idee che lo hanno reso possibile. Sono le idee che impongono tutto. Quando mi viene in mente, l’idea già ha una sua forza autonoma, si auto-impone. Se mi viene in mente l’idea per una sedia, vedo già la sedia, vedo com’è fatta, mi faccio trasportare dall’entusiasmo e la costruisco così come si è imposta nel pensiero. A volte durante la fase realizzativa mi capita di perdermi. Ma poi se riesco a tornare all’idea da cui è partito tutto, ritrovo subito la forza di andare avanti. INLAND EMPIRE è iniziato con delle idee per alcune scene. Poi ho cercato il modo attraverso cui quelle idee avrebbero potuto adattarsi al cinema, e ho iniziato subito a lavorare, a fare delle riprese. Però le idee che avevo riguardavano singole scene, momenti separati. Il problema era come metterle insieme. È così che è cresciuto il progetto, momento per momento. A un certo punto ho sentito venire fuori l’insieme.

Durante le riprese?

Sì. Perché inizialmente non sapevo se sarebbe stato un lungometraggio o altro. Me ne sono reso conto mentre giravo. È allora che ho chiamato Canal Plus, in Francia, e ho detto loro: “Non so quello che sto facendo, ma ne verrà fuori un film e lo sto girando in DVcam. Volete partecipare?”. Mi hanno risposto di sì. È così che sono andate le cose.

E il risultato rispetta le idee da cui è partito?

Io sento che il film vuole essere in un certo modo, che detta una sua linea. Così continuo a lavorare finché il film non mi parla e mi dice: “Sono pronto.” Con INLAND EMPIRE avevo però la sensazione che le cose stessero prendendo una brutta piega. Stava venendo fuori una cosa troppo diversa dal solito. Parlando con delle persone a Venezia mi sono reso conto che il loro unico problema era che non lo capivano, ma si sforzavano comunque di oltrepassare l’incomprensione iniziale, affrontando il viaggio, e abbandonandocisi. Negli Stati Uniti Hollywood Reporter e Variety hanno stroncato il film, lo capisco, sono delle riviste per il mondo degli affari, e hanno le loro ragioni, non è un film fatto per fare soldi. In Francia Liberation ha pubblicato un bell’articolo, definendolo un “capolavoro”. Credo che sia un film che funzioni diversamente dal resto del cinema, e credo che comunque a una certa parte di spettatori piaccia. Sono curioso di vedere quale sarà la sua sorte in giro per il mondo…

Non c’era un copione prima di iniziare le riprese…

Di solito lo faccio, ma per questo film no. Avevo scritto delle pagine per ogni scena, scrivevo una scena senza sapere quale sarebbe stata la seguente. Questo accade normalmente quando si scrive una sceneggiatura. Si scrive una scena, non si sa quale sarà la seguente, ma si aspetta, non si va a girare la scena. Si aspetta a girare finché il copione è ben strutturato, perché si sa quello che si deve girare. Ma questa volta scrivevo e subito mi mettevo a girare, a ogni scena, senza sapere come mettere insieme il tutto, finché non sono arrivato più o meno a metà film.

Quindi le immagini stesse sono state la pagina bianca dove il film si è scritto, o se preferisce, la tela. Questo mette in causa molto radicalmente la questione del vedere prima di ogni altra. Per lei cos’è l’atto di vedere?

L’atto di vedere è l’atto di sapere. Sapere. È una cosa molto precisa. Il cinema è vedere, è sentire, è tempo, è far fluire una cosa in un’altra cosa con un certo ritmo, con una certa luce. Tutti questi elementi vanno insieme. Un’idea è una specie di sapere istantaneo. È qualcosa che viene all’improvviso e che ha a che fare con l’istante. È come nei fumetti dove fanno vedere che si accende una lampadina. Quella è un’idea. In quell’istante sono presenti tantissime cose contemporaneamente. Quando ho un’idea, comincio subito a scrivere e mi rendo conto che non è una sola frase, ma tante frasi. Poi c’è uno stato d’animo e cerco di descriverlo. Ripenso all’idea di partenza e riscrivo. C’è una stanza che deve essere in un certo modo e la descrivo. Da una sola idea a volte vengono fuori molte pagine. Le idee sono molto importanti e provengono da dove proviene tutto: dalla fonte, da un campo unificato, dall’oceano della coscienza pura. È da lì che proviene tutto. Bisogna tuffarsi in quell’Oceano…

Lei ha detto che l’atto di vedere è sapere. Ma per esempio in INLAND EMPIRE, e non soltanto in questo dei suoi film, occupa una grande parte l’oscurità, il buio… Cos’è quel buio per lei?

La storia del film prende spunto da una donna che ha dei problemi. Questa donna vive in un certo posto e all’improvviso si perde sempre di più in qualcosa che si potrebbe chiamare “oscurità”. La risposta al come e al perché si trova lì, nell’oscurità. Quindi lei continua a andare avanti. Davanti a lei ci sono ovunque delle aperture. Ma c’è anche un’apertura segreta e lì inizia una storia bellissima. Mentre si continua a vedere tutta la sofferenza, tutta l’oscurità, tutti i problemi che ha quella persona. Ma oltre quell’apertura segreta c’è la libertà, c’è la possibilità di godere della totalità, di tutta la storia. È una cosa straordinaria. Nel film Laura Dern ha due nomi: Nikki Grace e Susan Blue. È tutto lì, nel film. Gran parte di INLAND EMPIRE è una discesa agli inferi. Ma alla fine c’è una luce bellissima.

Quello che è interessante è che lei ha girato in video. Se il film fosse stato girato su pellicola 35mm, la grana dell’oscurità sarebbe stata diversa. Con il video c’è qualcosa che ha un effetto di sgranatura. È una strana oscurità perché non è una vera oscurità, è come una nebbia.

Sembra granulare.

Per più di un’ora ci è sembrato di camminare nella nebbia. Sullo schermo quasi non si vede niente, però allo stesso tempo si vedono molte cose, come se succedesse più di quanto si riesce a vedere. È una immagine della differenza: lei ha girato in video, e col video è molto difficile restituire al buio l’oscurità…

Col video è più facile girare nel buio, però hai la grana, è vero. Io ho girato con una telecamera non molto più grande della vostra palmare, però DVcam. Il DVcam offre possibilità eccezionali. Pesa poco e si può tenere in mano. Non si può tenere in mano per molto tempo una Arriflex o una cinepresa Panavision, sono troppo pesanti e ci si stancherebbe moltissimo. Con la videocamera invece posso ondeggiare (uso il pogo stick per ondeggiare), ha la messa a fuoco automatica, riprese da 40 minuti.. È una grande libertà. Posso cambiare facilmente, prima posso inquadrare te e poi lui mentre resto sulla scena. Posso anche parlare agli attori mentre riprendo per farli arrivare alla giusta profondità e continuare a riprendere senza staccare. Non ho il problema che mi finisce la pellicola. Quindi va tutto a favore della direzione degli attori, della scena… Poi il tutto passa attraverso una macchina e può migliorare. Non è esattamente una qualità da Alta Definizione, però è comunque un miracolo che si riesca a migliorare la qualità mediante gli algoritmi. L’inventore di questa macchina ha fatto un magnifico lavoro. Abbiamo effettuato dei test dove si possono fare delle correzioni ai colori. Si possono fare tante cose diverse con il telecinema. Ora si fanno tutte queste cose con il telecinema. E il risultato finale è quasi identico al film nel caso fosse stato girato su pellicola. Abbiamo effettuato dei test e il risultato è stato meraviglioso. Nelle scene scure la grana del digitale si mischierà con la grana della pellicola. Sarà stupendo.

È una fase molto ‘musicale’ nella costruzione delle immagini… tra l’altro lei cura sempre la tessitura sonora dei suoi film…

Lo faccio sempre. Le immagini e il suono vanno insieme. Il suono è come se fosse l’altra metà della storia. Deve ‘corrispondere’ alle immagini. Secondo me quando si realizza un film, si dovrebbe pensare al suono così come si pensa all’illuminazione, alla stanza, a come gli attori si muovono sul set, a come parlano, al ritmo con cui parlano. Il suono è parte integrante di tutto questo, è legato a tutto questo. Quando si inserisce il suono sbagliato, si rompe l’armonia. Allora bisogna cercare di far scorrere il suono rendendolo giusto per creare l’armonia tra immagine e suono. Le cose vanno affrontate insieme.

Parlando di musica, ci siamo sempre domandati perché in Cuore selvaggio ha utilizzato Im Abendrot di Richard Strauss, tagliando il brano prima che inizi il cantato, ogni volta. Glielo chiediamo perché il testo del brano scritto da Eichendorff ha qualcosa di molto simile all’atmosfera del suo film.

Non era mia intenzione tagliare il brano quando comincia a cantare. Avevo già raccontato questa storia all’uscita del film. Mi trovavo in Germania in una Mercedes nuova di zecca. Nevicava e a un certo punto la macchina si è fermata. Le persone che erano con me andarono in un palazzo lasciandomi da solo in macchina. I fiocchi di neve erano grandissimi. Non potevo sentire i rumori che provenivano da fuori. Avevano lasciato accesa la radio e il riscaldamento. Poi sentii alla radio questo brano di Richard Strauss. Alzai il volume dell’ottimo impianto stereo della Mercedes. Non so se piansi, forse sì. Una musica bellissima, non l’avevo mai sentita prima. È uno dei suoi lavori migliori. Volli assolutamente inserire il brano nel film. E alla fine ebbe il suo effetto sui personaggi, sull’atmosfera, sull’umore del film, dandogli uno spessore molto più ampio. Ma non ci fu mai possibilità nel film di farlo sentire tutto. Ma questa è anche una particolarità delle scene così come le concepisco io. In INLAND EMPIRE, per esempio, c’è una canzona intitolata Locomotion. All’inizio questa canzone durava di più, ma a un certo punto bisognava lasciar continuare il film, non si poteva far sentire tutta la canzone, è contro le mie regole. È meglio fermare la musica per andare avanti che far sentire tutta una canzone. Questo vale anche per il brano di Richard Strauss. Dopo aver soddisfatto la sua necessità istantanea, bisognava andare avanti.

A proposito dell’intero processo di creazione, lei ha fatto fumetti, quadri, ha creato mobili, composto musica, sviluppato un videogioco. Tutti questi formati differenti (anche se non necessariamente diversi) tra loro, sono in un certo modo e allo stesso tempo uguali…

Nel mondo del cinema c’è una società chiamata Seven Arts. Loro dicono di mettere insieme sette arti. Ti fa capire che non sarebbe difficile passando dal cinema interessarsi alla fotografia, e sarebbe facile interessarsi anche al suono, alla musica, all’architettura, al mobilio, alla creazione di vestiti… Io penso che dal cinema si può cominciare a interessarsi anche all’agricoltura. Il cinema apre tanti mondi.

 (da Filmcritica, n.571-572, gennaio/febbraio 2007)

grazie a Bandeapart

MULHOLLAND DRIVE di David Lynch (2001)

3 Mar

Morandini: Hollywood 2000, da incubo. Due trentenni, una bionda e una bruna, amiche, amanti e nemiche; un regista che prepara un film che “non s’ha da fare”; un teatrino che si chiama Silenzio; una piccola folla di mafiosi, avventori, vicine di casa impiccione, veggenti, ex bellezze sinistre; una strada come titolo (porta in novanta minuti all’oceano); una scatola blu che, aperta, fa ricominciare la storia da capo, rivelando il sommerso, il rimosso, l’inconscio. È come Strade perdute, e ancor più intriso di una dimensione onirica; affollato da personaggi alla Twin Peaks. Pilot di una serie TV per l’ABC che lo rifiutò e passato ai francesi Alain Sarde e Studio Canal che offrirono a Lynch i mezzi per rimontarlo. Al Festival di Cannes 2001 vinse – ex aequo con L’uomo che non c’era – il premio della regia. Musiche di Angelo Badalamenti (il mafioso che risputa il caffè) e Lynch. Coco è la Miller, provetta ballerina di tip-tap e attrice tra il ’36 e il ’56. Versione italiana tagliata.

Film TV: Della storia di “Mulholland Drive” si capisce poco o nulla. Ma niente paura, deve essere così. Punto primo: David Lynch ribadisce l’assunto del suo film più sperimentale (“Fuoco cammina con me“) e di quello (secondo lui più irrisolto), “Strade perdute“. Il cinema è la scrittura del sogno. Una finestra che si apre su un mondo dove non è la logica a regolare i rapporti di causa-effetto ma il delirio. Punto secondo: solo attraverso l’intima conoscenza dell’Ordine è possibile descrivere alla perfezione il Caos. In parole povere: il fatto che la storia, a caldo, sia incomprensibile, non significa naturalmente che non abbia “senso”. La mappa per muoversi nel delirio la da proprio il regista, con il suo cinema precedente (personaggi che parlano al rovescio) e attuale (una chiave di lettura… blu). Abbandono, deriva: con un genio come Lynch bisogna saper accettare il surrealismo e la disillusione di realtà come sole, vere, essenze del cinema.

THE STRAIGHT STORY di David Lynch

24 Feb

FINAL SCENE

INLAND EMPIRE di David Lynch

21 Gen

Chi ha ucciso Laura Dern di Alessandro Baratti di Spietati.it

Considerare IE un film esclusivamente illogico, surreale, delirante significa fargli un torto enorme, significa non riconoscere la sua anima, che è un’anima radiosa, cristallina, fonte di generosità e luminosità. Inversamente, interpretare l’ultimo film di David Lynch secondo una chiave rigorosamente psicologica – come una sindrome dissociativa originante un ritorno del rimosso sotto forma allucinatoria – significa ingabbiarlo in uno schema tanto raziocinante quanto intransigente, finendo per soffocarne le risonanze spirituali, fortissime in IE. Sia l’interpretazione “surreale” che quella “psicologizzante” si rivelano coperte troppo corte, insomma, fallendo il bersaglio della comprensione (il più possibile) integrale dell’opera. Proponiamo invece una terza via ermeneutica tesa ad armonizzare le due prospettive in una visione basata su procedimenti analogici e sul superamento del principio di non contraddizione: tertium datur.

Can you see the lights? Come noto, Lynch pratica la meditazione trascendentale da più di trent’anni (“All’inizio ti pare una perdita di tempo, poi scopri che è come un ascensore in caduta libera. Una benedizione che ti esplode in testa. La vita si mette a pulsare in modo diverso. Integra intelletto con emozione, quando questi si uniscono ci permettono di comprendere ciò che prima ci pareva incomprensibile”): ebbene, INLAND EMPIRE è integralmente permeato di suggestioni trascendentali, al punto da essere strutturato come un percorso di illuminazione liberatoria. Quello esperito da Laura Dern (Nikki/Sue) è difatti un viaggio verso la luce che passa attraverso un tuffo nell’oscurità, un faccia a faccia con le paure più profonde e imprigionanti culminante in una raggiante liberazione. Se questo orientamento non viene tenuto saldo per l’intera durata del film, la materia narrativa resta quasi inerte, riducendosi ad un coacervo di frammenti sconnessi – anche se meravigliosamente realizzati – con una pesantissima ricaduta emotiva: le singole sequenze riescono sì a generare emozione, ma un’emozione primitiva, elementare, involuta. Monca. Affinché la materia “trascenda” è necessaria l’integrazione con la dimensione intellettuale: intelletto ed emozione in unità, in armonia. Unificata, la mente assapora i frutti, comprende, vede. Questo è ciò che ci dice Lynch dalla prima all’ultima inquadratura di INLAND EMPIRE. Un messaggio? Una lezione? Uninsegnamento? Assolutamente no. Una concezione dell’esistenza, piuttosto, una visione mentale direttamente riversata in immagini filmiche. O meglio: una visione concepita in immagini digitali (“With DV everything is lighter; you’re more mobile. It’s far more fluid. You can think on your feet and catch things”). Puro linguaggio visivo, immagini pensanti, “senzienti”. Immagini liberatorie. Perché – fare attenzione – non tutte le immagini sono dotate di questo potere, alcune imprigionano, generano e perpetuano segregazione, come quelle televisive: la Lost Girl è schiava della televisione, specchio generatore di fobie, strumento di ipnosi, correlativo oggettivo del Fantasma. È il Fantasma che attraverso il televisore la tiene in trappola, paralizzandola in una condizione di angoscia catodica senza fine, 24 hours a day.

TV Dog La sequenza iniziale, nella quale l’identità dei personaggi è resa ambigua da un alone che ne offusca i volti, rivela che è proprio la paura a costituire il blocco principale: una donna polacca spaesata (“Le scale sono buie… Non riconosco questo posto… Non trovo la chiave”) è alla mercè di un uomo padrone della situazione (“È la nostra camera… Ho io le chiavi, le hai date a me…”), che la guida e la sottomette (“Lo sai cosa fanno le puttane? Togliti i vestiti…”). La forte atmosfera sadomaso che impregna la circostanza (“Mi vuoi scopare?”, “Ti dico io cosa voglio! Spogliati!”) non può non far pensare a una sodomizzazione, tanto più che, prestando attenzione, è possibile notare che l’uomo tiene bloccata la ragazza con le braccia dietro la schiena. La frase conclusiva della donna soggiogata – che indoviniamo indossare una mascherina bianca, accessorio tutt’altro che casuale come vedremo in seguito – è paradigmatica: “Ho paura. Ho paura”. Adesso è definitivamente prigioniera. Chi è questa donna? Non necessariamente e non soltanto la Lost Girl (anche se tutto ce lo fa pensare), più ampiamente è qualunque donna si lasci sottomettere (le prostitute amiche di Sue e della Lost Girl…). Chi è l’uomo? Non soltanto il Fantasma, ma qualunque individuo esercitante il controllo attraverso il terrore e la prevaricazione (Piotrek, Devon/Billy). Sgomenta, la Lost Girl è imprigionata nella stanza 47, il televisore a fare da cane da guardia. Particolare sconvolgente: nel finale, durante lo scontro col Fantasma nel corridoio, al posto della piccola finestra sopra la porta si trova un abnorme televisore con videoregistratore incorporato. Un mostruoso compatto nero che sovrasta la soglia, custode gigantesco e agghiacciante che sorveglia l’ingresso incutendo un timore indicibile. Si tratta di un oggetto strano e dislocante: scorgerlo fa letteralmente gelare il sangue. È soltanto all’esterno, una volta all’interno della stanza questo mastino tecnologico scompare, volatilizzato insieme al Fantasma. Ghost Dog

Ghost of fear+ego È qui che occorre correggere il macroscopico travisamento presente nel commento Ghost of Love. Confuso dal fatto che all’esplosione luminosa provocata dai proiettili il Fantasma non dà segni di dolore o sofferenza, ho pensato fosse stato “reclutato” in qualche modo dalle forze benigne (per la precisione dagli anziani polacchi seduti attorno al tavolo). In realtà, si tratta di una compiuta e stratificata rappresentazione del Male: l’ego e la paura uno sopra l’altra. Laura Dern spara quattro volte al Fantasma: i primi tre proiettili producono un bagliore crescente che lo investe e lo immobilizza, facendo comparire sul suo volto la maschera stravolta di Nikki, mentre il quarto sparo, esploso contro questa immagine agghiacciante (tra le più spaventose mai viste), dissolve la maschera e fa comparire un viso bianco e gommoso con le orbite nere e la bocca sanguinante. Immerso in un liquido trasparente, questo viso da fantoccio rappresenta la Paura intesa come blocco sommerso, grumo inconscio, ostacolo all’unità della mente. Superata anche quest’ultima prova, Nikki può entrare nella stanza 47 e raggiungere la Lost Girl, liberandola con un abbraccio e un bacio che, lungi dal possedere connotazioni erotiche, comunicano un’ondata travolgente di empatia, unità e felicità. Armonia.

Mise en liberté Qual è il legame tra questi due personaggi? È indubbio che Nikki “scarceri” la Lost Girl dalla prigionia fantomatico-televisiva passando attraverso lo specchio/schermo (più che una mise en abîme quella del finale è una vera e propria mise en liberté) ed è altrettanto indubbio che la vicenda di On High In Blue Tomorrows riproduca, con le relative interferenze sul piano extrafilmico, quella di Vier Sieben, ciononostante il rapporto tra le due donne è in bilico tra proiezione mentale ed effettiva esistenza su piani distinti di realtà. La Lost Girl “crea” psichicamente Nikki/Sue? Nikki esiste effettivamente in un’altra fascia di realtà? In tutta franchezza credo che entrambe le ipotesi siano plausibili e che uno dei risultati più affascinanti di INLAND EMPIRE risieda proprio nella creazione e nel mantenimento di questo delicatissimo equilibrio generatore di mistero. Attribuire uno statuto autonomo a Nikki permette di apprezzare pienamente il suo percorso di affrancamento dalla tirannia di Piotrek, il marito autoritario e possessivo, dalla falsità di Devon/Billy, l’amante subdolo e approfittatore, e dalla vanità di Kingsley, il regista fatuo e adulatore. Osservata come personaggio a sé stante, Nikki diventa insomma la protagonista di un cammino di ascesi costellato di ostacoli da superare e scandito da una gamma cromatica che attraversa il verde e il rosso per culminare nell’azzurra radiosità di una luce sfavillante. Chiameremo questa traiettoria narrativa “prospettiva nikkocentrica”.

On high in blue tomorrows In questo progresso spirituale sono almeno due i momenti determinanti e si svolgono entrambi nel film On High In Blue Tomorrows. Il primo coincide con l’irruzione di Laura Dern in casa di Billy: schiaffeggiata da Doris (Julia Ormond) e respinta dall’amante, Susan subisce una pesante umiliazione, perdendo letteralmente la faccia. Con l’affermazione “Non m’importa, è qualcosa di più”, Nikki/Sue (la situazione indica chiaramente che il trauma è condiviso da entrambe le dramatis personae) proclama l’irrilevanza dell’ego, la superfluità della maschera, sbarazzandosi del primo strato di condizionamenti. La dissoluzione delle Paure (il senso di colpa generato dal tradimento, il timore di fare la fine delle prostitute, delle homeless e in ultima istanza di Niko) avviene vivendole simbolicamente sul set di On High In Blue Tomorrows. Sulla strada, Sue urla sguaiatamente: “Dove sono? Sono una puttana. Ho paura”, suscitando le risate scomposte delle amiche prostitute (e ripetendo alla lettera le parole pronunciate dalla donna polacca nella sequenza iniziale). Il cacciavite che Doris le affonda nel ventre rappresenta il contrappasso della penetrazione e la soppressione dislocata del “figlio della colpa”. Il suo decesso, infine, reso ancora più raccapricciante dall’indifferenza delle due homeless e dalla storia di Niko, oggettiva il terrore definitivo, quello di morire sola e derelitta. Vomitando sangue – evento che prefigura la bocca sanguinante del fantoccio biancastro – Sue espelle il grumo di paure che ostruiscono ancora la sua mente, raggiungendo un condizione di armonia superiore.

Bodhisattva La morte di Sue è una rinascita. Nikki si mostra indifferente agli applausi della troupe e alle congratulazioni del regista, segno che ormai è insensibile alle lusinghe dell’ego, uscendo dallo STAGE 4 come un essere nuovo (“Un bambino un giorno andò fuori a giocare. Quando aprì la porta egli vide il mondo”), pronto a proseguire il cammino di crescita. Gli STAGE 5 e 6 sono davanti a lei, tappe naturali di un progresso individuale, eppure l’uscita dal teatro di posa le provoca un “riflesso” (“Nell’uscire dalla porta, egli causò un riflesso. Il male era nato e seguiva il bambino”): Nikki vede la Lost Girl e sceglie di andare in suo aiuto per sconfiggere il male che la tiene incatenata (una scelta che evoca con forza la figura del bodhisattva, “essere vivente che ha intrapreso il cammino per l’illuminazione ma sceglie di dedicarsi ad aiutare tutti gli altri esseri senzienti a raggiungere l’illuminazione”). Ora, prodigioso sottotesto, si rammenta dell’altra versione della storia raccontatale dalla vicina, quella in cui si parla di una fanciullina persa nella piazza del mercato come una creatura incompiuta: “Cioè non era la piazza del mercato, lei lo sa questo, vero? Era il vicolo appena dietro la piazza del mercato. Quella è la via che conduce al Palazzo”. Grazie all’unità dolorosamente conquistata, Nikki adesso ricorda, davanti a lei si materializza una soglia: un arco bianco che la immette nella sala cinematografica dove alcune immagini del film appena concluso (in una situazione simile alla visione dei giornalieri) le suggeriscono cosa fare: seguire l’uomo con gli occhiali (Mr. K) fino alla stanza Axxon n. e lì inoltrarsi nei meandri di uno spazio fusionale che la condurrà prima alla pistola riposta nel cassetto e poi al Fantasma. Lo scontro finale – stare attenti – non è col suo Fantasma, già esorcizzato sul set di On High In Blue Tomorrows, ma con quello della Lost Girl, con il blocco telefobico che la tiene prigioniera. A questo punto Nikki è in missione per conto della Lost Girl, lavora per lei.

La prospettiva “lostgirlcentrica” Accanto (con? contro? dentro? fuori?) alla prospettiva nikkocentrica carica, come abbiamo visto, di suggestioni simboliche e culminante in una liberazione dal sapore fortemente catartico/trascendentale, esiste – anzi è quella che va decisamente per la maggiore – una lettura del film che assume invece il punto di vista della Lost Girl e che vede in Nikki/Sue un prodotto immaginario della ragazza polacca che guarda la televisione. Pura “trasfigurazione sognata/idealizzata”, secondo questa chiave di lettura Nikki non sarebbe altro che la proiezione allucinatoria, irrigata dalle immagini televisive, dell’intima vicenda della Lost Girl chiusa nella stanza di un vecchio hotel. A proposito di questa interpretazione (ed è bene ribadire fino alla nausea che per un film come IE ogni tentativo di sistemazione della materia narrativa è un’avventura ermeneutica e non una semplice operazione di ricomposizione della linearità), ho ricevuto una mail di Luca Pacilio che illustra esemplarmente la prospettiva “lostgirlcentrica”, sviluppando inoltre una riflessione di straordinaria finezza estetico-linguistica sulla “televisività” strisciante di IE. Mette conto riportarla integralmente, il tono confidenziale e, per così dire, soffice dell’argomentazione è autentico valore aggiunto.

Format e sostanza “Ale, rimettendo a posto i vari appunti raccolti ricavo questo schemino semplice, poco particolareggiato e pieno di buchi: ci andrebbe una visione in dvd, reiterata e con telecomando alla mano, almeno di alcuni passaggi che meritano approfondimento e attenzioni particolari (i dialoghi, tanto per dire, sono fondamentali): la situazione è molto, molto più complicata di Mulholland Drive che operava un semplice (?) rovesciamento di prospettive. Qui no, qui i livelli sono tanti. Ho assunto subito (e ho mantenuto fermo anche in seguito – perché avevo paura di mollarla quest’unica certezza, a quel punto non avrei saputo che pesci prendere -) come porta d’ingresso del film la Lost Girl, la ragazza polacca che guarda la televisione. Di lì, in soldoni e (fin troppo schematicamente) Nikki/Sue come sua trasfigurazione sognata/idealizzata. La Lost Girl occupa la stanza di un hotel (quello cui fa riferimento il radiodramma Axxon N.annunciato all’inizio del film e nel quale essa accoglie un misterioso cliente – o il marito? E’ quest’ultimo che la brutalizza? Può essere -). On High In Blue Tomorrows è l’adattamento di 47, un film polacco che racconta la storia (reale o immaginata da/) di questa ragazza. La Lost Girl proietta sullo schermo un’intima vicenda (il proprio reale vissuto? Le proprie paure? I propri desideri?) e si rivede in un’attrice hollywoodiana alle prese con un nuovo film, ma in essa non riesce a non trasferire anche il proprio senso di colpa, legato a un tradimento (consumato? Solo anelato?). “Tutte le azioni hanno delle conseguenze” dice la vicina; in seguito lo dirà il marito di Nikki: tutti i conti devono essere pagati, tutte le colpe vanno espiate; il suo tradimento (consumato? Solo anelato?) si riversa nella vicenda di Nikki (con l’attore Devon) e nel suo doppio cinematografico Sue (col personaggio Billy). Sue, il personaggio interpretato da Nikki, vive in On High In Blue Tomorrows le vicende (reali? Mentali?) della Lost Girl alle prese con un marito remissivo che non può avere figli e il conseguente adulterio (lo stesso vale, almeno in parte, per Nikki). Il marito, dopo averla picchiata, lascia la donna per seguire un circo. A seguito dello scontro lei perde il figlio che aspettava dall’amante, amante che forse viene ucciso dal marito. Il tutto in una sorta di dimensione che non è quella di Sue, o almeno non completamente, e non è quella di Nikki e che è molto vicina alla vicenda (reale? Immaginata?) della Lost Girl, Lost Girl che si prostituisce (per denaro? Per senso di colpa? Perché la prostituzione è lo specchio idealizzato del suo tradimento coniugale?). Phantom è una figura che simboleggia il Male (la Paura? Il Desiderio?) e, al di là dell’ambiguo ruolo che ricopre nelle vicende, ipnotizza la moglie di Billy inducendola all’omicidio e indirettamente fornisce l’arma dell’ulteriore delitto (i protagonisti del film vengono uccisi, ci viene detto fin dall’inizio, anche se non dovrebbe esservi delitto nella versione americana, a detta di Nikki). Sue muore per mano della moglie del suo amante sulla strada di Hollywood (quanto avviene negli USA trova il suo corrispettivo speculare nel film polacco 47). La morte della protagonista di On High In Blue Tomorrows sul marciapiede è il momento rivelatore: Nikki, smessi i panni di Sue, consapevolizza tutto riguardandosi sullo schermo cinematografico del teatro di posa attraverso una sorta di avvoltolamento dei sensi, da film nel film, e uccide Phantom, il Male (la Paura? Il Desiderio?) e si ricongiunge alla sua parte fisica: la Lost Girl, sconfitte le sue angosce, ritrova il marito e il figlio (realmente? Fintamente?), scena che un po’ mi ricorda l’abbraccio tra Dorothy e il suo bimbo nel finale di Velluto blu. Il mio massimo dilemma è appunto relativo alle visioni della Lost Girl: quanto sono dettate da fatti reali? Quanto sono proiezioni di suoi tormenti? I titoli finali raccolgono nella stanza delle prostitute solo personaggi immaginari, in una sorta di girotondo felliniano (non ti piace ‘sta cosa lo so, e non ti piacerà lo schematismo del raccontino, temo: vedo che c’è molto di più, ma richiede un tempo che non ho e una voglia che al momento latita del tutto). Volevo dirti che il doppiaggio italiano è terrificante: nella versione originale la vicina di casa ha un accento straniero veramente inquietante, con queste consonanti durissime, e un tono che è molto meno ironico e lezioso. Il film, poi, riversato in pellicola, perde moltissimo: i colori in digitale, per quanto freddi e poco sfumati, sono molto più intensi, e non c’è comunque traccia di quella patina grigio-marrone che è il dato costante della versione presente in sala. Spero che l’edizione in DVD non si limiti a riprodurre quella della pellicola (il Tulse Luper italiano non ho voluto comprarlo per questo motivo). Comunque, tornando al film, che solo in apparenza dura tre ore perché straborda fuori dal cinema e ti accompagna per un bel pezzetto ancora, a me pare che quale che sia l’interpretazione che si intende adottare e la porta d’ingresso che si vuole infilare – sono legittimi molti percorsi interpretativi -, quello che s’impone chiaramente e che non viene per niente sottolineato è il tipo di linguaggio che Lynch sceglie per raccontare questa vicenda al femminile: la Lost Girl opera una sorta di autentico zapping dell’anima, il percorso si dipana televisivamente, attivandosi attraverso il salto da un canale all’altro, da un format all’altro: c’è il film, la soap opera, il making of, il talk show, la sitcom, il videoclip, c’è addirittura l’annuncio (Hollywood, California, where stars make dreams and dreams make stars!) e il telefilm (il marito che lascia la moglie per seguire il circo: è una serie televisiva questa, chi potrà mai negarmelo?). E le prostitute, in quella stanza che sappiamo sigillata in un set, che si abbandonano a confidenze e discorsi oziosi? Che dicono “Questa sera svoltiamo”, e “C’è sempre speranza con tette come le tue?”. Non è forse un reality-show quello? Non è una prova punti à la “Grande Fratello” quel balletto ingenuo e allegro sulle note di Loco-motion?” (Luca)

Psicoteatro Schegge proiettive, frammenti d’immaginario, frattali psichici, i livelli di IE gemmano gli uni dagli altri provenendo dalla Lost Girl piazzata davanti allo schermo, in un vorticoso impasto psicotelevisivo. La buia camera d’albergo diventa il luogo della dissociazione e della proiezione, in una situazione simile a quella descritta da Sue a Mr. K nell’ufficio Axxon N.: “Quando guardavo le cose attorno a me e io che stavo lì nel mezzo, le guardavo come nel buio di un teatro prima che la scena si illumini”. Gli strati di IE (il radiodramma Axxon N.4/7, la vicenda di Nikki e On High In Blue Tomorrows) non farebbero altro che riprodurre sotto forma allucinatoria le ferite psichiche della Lost Girl, le sue cicatrici interiori. Alla base c’è un tradimento (e una gravidanza interrotta) che spinge la donna a riversarsi nelle rappresentazioni televisive, raggiungendo un voltaggio emotivo tanto più alto quanto più le vicende rappresentate si avvicinano al “nucleo doloroso”. Le frequenti confusioni di livello e le scosse visive si collocano proprio nei momenti più “caldi” del film. Nikki sovrappone realtà e finzione subito dopo aver accettato l’invito a cena di Devon sul set e aver girato una sequenza sensuale con Billy in On High In Blue Tomorrows(“È questo che vuoi Billy? Non voglio innamorarmi di te”, mormora Sue nel crescendo della passione). Lo spettro del tradimento si fa sempre più incombente, entrando in risonanza con l’interiorità turbata della donna seduta davanti allo schermo e producendo una confusione sintomatica: lo smarrimento di Nikki/Sue è a tutti gli effetti lo smarrimento della Lost Girl, che contamina le immagini osservate con un investimento psichico dirompente. Oppure si pensi al momento in cui, dopo il doppio omicidio avvenuto nel livello Vier Sieben, assistiamo a un vero e proprio cortocircuito visivo in cui un’immagine di Laura Dern inquadrata frontalmente mentre dietro di lei piove si commuta in quella di Sue seduta nello stesso modo, ma in accappatoio e dentro casa, circondata dalle amiche prostitute che ballano mentre lei urla a squarciagola. Più le immagini che la Lost Girl vede in tv mettono il dito nella piaga, insomma, più la sua mente vacilla, confondendo i livelli e scivolando paurosamente da un piano all’altro. In questo senso la plasticità semantica di IE sarebbe pienamente riconducibile al gioco di proiezioni e identificazioni della donna polacca, disegnando un vero e proprio teatro della mente in cui le immagini televisive riattiverebbero il “nucleo doloroso” incassato nella psiche della Lost Girl . Estremamente interessanti in questo senso le riflessioni sviluppate da trino nei suoi Prolegomeni alla Narrazione, da cui prendo in prestito l’espressione “nucleo doloroso” e a cui rimando per l’approfondimento della dinamica narrativa.

Sovrimpressioni Sono numerosissimi gli elementi che suggeriscono l’interpretazione lostgirlcentrica, non ultimo (anzi primo in ordine di apparizione) il volto che si indovina per qualche istante sulla scacchiera di sovrimpressioni poste tra il titolo del film a caratteri cubitali e l’inizio della sequenza ambientata nel “vecchio hotel in un grigio giorno d’inverno”. Mentre la puntina in primo piano solca il vinile, si succedono infatti sullo schermo brevi immagini in sovrimpressione: una di queste lascia indovinare un occhio inquadrato frontalmente sulla destra del quadro. A questa semi-immagine segue prima quella di un vetro appannato e poi la dissolvenza incrociata che introduce alla sequenza iniziale (in realtà è visibile anche un altro “enigma figurativo”: un oggetto circolare mobile che avanza verso di noi in modo molto simile allo zoom di una videocamera). Senza lanciarsi in risibili congetture o supposizioni avventurose, risulta comunque impossibile non pensare ad uno sguardo attraverso una superficie di vetro. È la situazione della Lost Girl: la “porta d’ingresso” di cui parla Luca Pacilio sembrerebbe addirittura arretrabile all’incipit vero e proprio del film, dissipando ogni dubbio circa la necessità di leggere INLAND EMPIRE da questa prospettiva. Parafrasando Luca e aggiungendoci assai del nostro, insomma, IE metterebbe in scena la vicenda di un’ex attrice polacca, la Lost Girl, che nel corso della lavorazione di un film intitolato Vier Sieben tradisce il suo uomo col protagonista maschile, rimanendo incinta e perdendo il bambino (probabilmente a causa delle percosse ricevute dal suo uomo). La possessiva e vendicativa moglie del protagonista (“Non te la lascerò mai avere. Mai”, sibila minacciosamente) uccide il marito fedifrago causando a sua volta la vendetta della Lost Girl, che, armata di cacciavite, la uccide sventrandola. Costretta a vivere in clandestinità e a prostituirsi, la Lost Girl è adesso prigioniera del proprio passato e, sola in una camera d’albergo, rivive televisivamente gli avvenimenti che l’hanno travolta, immedesimandosi con Nikki, la protagonista di un film americano. La tv diventa la tela su cui proiettare, deformandolo e aggiustandolo, il proprio vissuto: On High In Blue Tomorrows si trasforma nel remake di Vier Sieben dove però è lei ad essere uccisa dalla moglie tradita, espiando in questo modo il duplice senso di colpa per il tradimento e per la morte dell’amante. Ormai degenerato in fantasticheria, il film visto in tv si prolunga infine in un commovente e irrealistico happy end in cui Nikki “attraversa lo specchio” per abbracciarla e baciarla, liberandola da tutte le sue paure e donandole idealmente la vita felice che non ha potuto vivere.

Irrazionalmente Eppure leggere il film esclusivamente secondo questa chiave rischia di inscatolarlo in una dimensione psichica un po’ troppo angusta, trascurando, o meglio ignorando colpevolmente, la pressione spirituale che lo abita. Si giunge forse alla costruzione di un senso forte, culminante nell’immagine illusoriamente definitiva della “trama” (in realtà si tratta della fabula, che come è noto non è altro che un’astrazione), ma lo si fa ai danni di una dimensione altrettanto marcata e urgente che pervade la parabola di Nikki/Sue. Quella delineata sopra, insomma, non solo non è LA trama di IE (nel senso che, ovviamente, rappresenta una delle possibili, molteplici e ipotetiche impalcature narrative ricavabili dal plot), ma è il risultato di un dramma interpretativo già consumato, i cui i segni di incisione del testo non sono più visibili e il cui taglio netto ha comportato una vera e propria mutilazione del film. Pensiamo al finale naturalmente, nel quale, lasciata la Lost Girl in compagnia ideale, Nikki se ne sta beatamente seduta sul “divano del domani” vestita di celeste e con un’espressione e una postura letteralmente angeliche. Si tratta di un’immagine dalle fortissime connotazioni spirituali, quasi un’immagine sacra. Compiuta la sua missione salvifica e liberatoria, adesso Nikki è, per così dire, in trono celeste. Esaltata dall’eterea Polish Poem (scritta da Chrysta Bell e David Lynch e interpretata dalla stessa Chrysta Bell), la sequenza dell’illuminazione, in cui Laura Dern è investita da un potente fascio di luce proveniente da un riflettore, segnala effettivamente la fine del viaggio di Nikki, il raggiungimento di una folgorante pace interiore, punto di arrivo dell’itinerario di purificazione. Sempre di itinerarium mentis si tratta, certo, ma qui il culmine è spirituale e non allucinatorio, il ricongiungimento della Lost Girl con Smithy e con il figlio perduto configurandosi come vero e proprio risarcimento trascendentale: il pagamento del conto in sospeso (colpe, paure, “pensieri peccaminosi”, rimorsi) azzera, per così dire, il “debito karmico” della Lost Girl, proiettandola in un universo di pienezza affettiva dove è dato riabbracciare la felicità perduta. Dove? In un altrove che non appartiene al mondo delle psicosi ma al mondo della psiche intesa come anima. È un’interpretazione irrazionale? Ebbene sì, è un’interpretazione irrazionale. “Ciascuno di noi è responsabile delle proprie azioni. E ogni azione ha le sue conseguenze. È questo, in fondo, che racconto. Una verità semplicissima” (David Lynch).

FIRE WALK WITH ME di David Lynch

17 Dic

Alessio Gradogna di CINEMYSTIC

Prequel e al contempo spin-off di Twin Peaks, con il quale Lynch mise più o meno la parola fine alla leggendaria saga scaturita dalla morte di Laura Palmer. Al tempo della sua presentazione a Cannes, il film ricevette dure critiche. Se ne ricorda anche una memorabile stroncatura del Mereghetti sull’omonimo dizionario. Si parlò di inutile masturbazione intellettuale, di manierismo, di una trama totalmente incomprensibile, perfino di una presa in giro nei confronti dello spettatore. Mi permetto di dissentire in tutto e per tutto. A parte che, se si conosce con un minimo di cognizione l’universo di Lynch, il film non è affatto così cerebrale dal punto di vista narrativo. Ma poi, se questo è manierismo, è manierismo sublime, da sfiorare con cura e conservare nello scrigno dei gioielli più pregiati.

Fire Walk with Me è un viaggio lisergico e ipnotizzante negli oscuri meandri dell’incubo, è un’esperienza mistica che lascia inebetiti, è un’entusiasmante corsa senza freni nel pozzo della notte più nera. Amore, orrore, lacrime, paura, emozione, follia, perversione, dolore, sesso, tensione, distruzione. Senza remore, senza speranza, senza vie d’uscita. Come dimostrerà poi anche in Mulholland Drive e in INLAND EMPIRE Lynch non fa film dell’orrore in senso stretto, ma riesce a creare il terrore, quello grezzo e atavico che fa accapponare la pelle, ben più del 99% degli pseudo horror che circolano in questi bassi tempi. Al contempo, e forse nessun studio critico l’ha mai sottolineato con la dovuta perizia, Fire Walk with Me è anche opera di estremo e lirico romanticismo, di struggente poesia, di dolore e abbandono. Una tragedia che vede al suo centro una ragazza di cerca d’amore e protezione, che è destinata alla dannazione e alla morte in quanto non abbastanza forte per farcela da sola. Una donna-bambina cresciuta troppo in fretta, vittima di abusi e traumi irrecuperabili, che urla disperata la propria voglia di salvezza senza poterla ottenere.

Laura Palmer è l’emblema di tante ragazze che si perdono e si uccidono nei meandri delle proprie insicurezze, devastate dal potere nefasto di una famiglia sbagliata e dalla sete di egoismo del mondo che le circonda, ed è un piccolo e tenero fiore ineluttabilmente destinato a essere schiacciato dalla crudeltà del mondo a cui appartiene. Lynch ce lo mostra attraverso sequenze cariche di dolcezza, alla visione delle quali gli occhi divengono lucidi e il cuore si spezza a metà. Attorno a lei, una gehenna soffocante, e l’Inferno sulla Terra, rappresentato da un demone lussurioso, da una camera rossa in cui perdere ogni coscienza di sé, da un bambino mascherato, da un nano che danza e parla al contrario celando dietro i propri occhi il vero volto di Satana. E se in tutto questo si perde per strada la razionalità degli eventi e delle situazioni, è giusto così, dato che stiamo parlando di un mondo parallelo che viaggia in asincronia rispetto alla consistenza del reale. Sangue e dolore, voyeurismo e abbandono, atrocità e catene spezzate… altro che manierismo e presa per i fondelli, questo è un capolavoro.

WILD AT HEART di David Lynch (1990)

12 Nov

Film TV: Di motel in motel, Sailor e Lula iniziano a rimanere a corto di denaro… Palma d’oro al festival di Cannes del 1990. Questa pellicola di Lynch è una satira atroce e visionaria sull’America, ma anche una favola (evidenti i rimandi al “Mago di Oz”), una constatazione dello stato infantile dell’immaginario americano. Da un romanzo di Barry Gifford.

Morandini: Da un romanzo di Barry Gifford. Sailor, in libertà vigilata, e Lula, scappata di casa, si amano follemente e tentano di raggiungere il Texas. Thriller d’inseguimento che ha cadenze di film nero, modi di un film di strada ed eccessi di violenza da melodramma gotico. Lynch connota la sua storia maledetta del profondo Sud con una dimensione ironica e parodistica che ne rovescia il senso e ne rivela la vera natura di favola comica, nel significato “basso” della parola, ma anche vicino al fumetto, quella di due innamorati che attraversano un mondo atroce dal cuore selvaggio. Anche quando apparentemente s’accomoda alle leggi di un genere, Lynch rimane un visionario impressionista e grottesco che guarda all’America di oggi con occhio impietoso. Palma d’oro a Cannes.