Come la racconta Buñuel di Alberto Moravia
Come poteva essere raccontata in maniera tradizionale la vicenda dell’ultimo film di Luis Buñuel Il fascino discreto della borghesia; e come invece Buñuel l’ha raccontata? Poteva essere raccontata come la storia piuttosto banale, da film poliziesco, di un gruppo di trafficanti di droga alle prese al tempo stesso con la polizia parigina e con la contestazione sudamericana. Il gruppo, infatti, fa capo all’ambasciatore della repubblica di Miranda, un immaginario paese dell’America latina, tra i più depressi e fascisti. L’ambasciatore, valendosi della valigia diplomatica, importa chili e chili di cocaina di ottima qualità che poi alcuni soci, tutti amici suoi personali, si incaricano di rivendere al minuto. Il clan dei trafficanti di droga non ha, in apparenza, nulla di losco. Si tratta di buoni, solidi borghesi, rispettosi delle istituzioni, bene educati, amanti dell’ordine. Il loro è un edonismo moderato e decoroso: niente eccessi, niente intemperanze, l’adulterio alle cinque, qualche bicchierino, un buon pranzo, una bella macchina, una casa arredata con gusto. Tuttavia questa brava gente, colpevole, in fondo, soltanto di andare incontro, come si dice, alla domanda del mercato con un’offerta adeguata, si muove in uno spazio sociale pieno di minacce. Sono perseguitati dalla polizia; insidiati dalla contestazione. La prima minaccia viene sventata: arrestati da un commissario più zelante che informato, i mercanti di droga vengono rimessi subito in libertà per ordine di un ministro probabilmente coinvolto anche lui nel traffico della cocaina. Ma la seconda minaccia si rivela effettiva: i tupamaros, incomprensivi e idealisti, irrompono nella villa in cui il clan si è riunito a tavola e fanno fuori tutti quanti a colpi di mitra. Come invece racconta la vicenda Buñuel?
In realtà non la racconta affatto. Il film non contiene una storia ma un’idea; e quest’idea non è tradotta in una narrazione mobile e lineare, bensì in una rappresentazione circolare e in certo modo immobile. Siamo di fronte al serpente che si morde la coda; al gioco dell’oca che a ogni errore bisogna ricominciare daccapo. L’idea, poi, è semplicemente quella del biblico “Mane, Tecel, Fares”. La borghesia, dopo aver ammucchiato il cosiddetto capitale, vorrebbe godersi la vita. Che importa se il capitale è stato ammassato con mezzi poco puliti; l’importante è mettersi a tavola. Ma mettersi a tavola è precisamente quello che la borghesia non riesce a fare. Il film, infatti, comincia con un pranzo interrotto e finisce con un pranzo interrotto. Ora, perché la borghesia non riesce a mettersi a tavola? Cosa gliel’impedisce? Esternamente, la rivoluzione, sempre in agguato; interiormente, il sentimento di colpa, sempre sveglio. I tupamaros coi loro mitra, la coscienza coi suoi incubi, impediscono alla borghesia di pranzare in pace. D’altra parte, però, Buñuel sembra pensare che la borghesia è forse una condizione eterna dell’umanità. Essa continuerà, dunque, la sua marcia verso un avvenire enigmatico, inseguendo il miraggio della tavola imbandita, come si può capire dalla immagine geniale che ci mostra il clan dei trafficanti che avanzano imperterriti su uno stradone deserto.
Il fascino discreto della borghesia è un apologo morale espresso coi mezzi del surrealismo. Quanto a dire che Buñuel in questo suo ultimo film si è disfatto ancor più che nei precedenti dei due caratteri principali del realismo: la durata e la verosimiglianza. Il film non ha durata perché la vicenda (cioè il pranzo) è continuamente interrotta e continuamente ricominciata. Non è verosimile perché è infarcito di sogni i quali, ovviamente, sono “reali” ma non sono “veri”. Così ancora una volta Buñuel ha saputo fondere la lezione surrealista con la religiosità moralistica spagnola. Il surrealismo di Buñuel è quello classico, degli incubi granguignoleschi e degli stralunati paesaggi onirici, come nei quadri di Delvaux e di Magritte; la religiosità, dura e fanatica pur sotto il velo di un’elegante ironia mistificatrice, risale più indietro, alla Controriforma. Come si vede Buñuel è un regista antitradizionale fornito però di una tradizione tutta sua. Ciò che lo rende miracolosamente moderno è la sua mano di artista che con gli anni ha acquistato una leggerezza, una capacità evocativa, una saggezza poetica addirittura stregonesche. Luis Buñuel ha ottenuto dai suoi attori proprio quella discrezione fascinosa di cui parla il titolo del film. Fernando Rey è un ambasciatore latinoamericano affabile, flemmatico e corrotto, Delphine Seyrig, Stephane Audran, Bulle Ogier, Jean-Pierre Cassel, Paul Frankeur e Julien Bertheau formano, intorno a lui, con bravura quasi da vaudeville, il clan dei borghesi trafficanti di droga.
dal libro Al cinema, Bompiani, Milano, 1975