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THE SWEET HEREAFTER di Atom Egoyan

15 Lug

Lutti estremi e sopravvivenza psichica di Cesare Secchi

Premessa

 Collocato nella fase ormai matura della produzione cinematografica del regista armeno-canadese, The Sweet Hereafter (1997) rinvia ai precedenti The Adjuster (1991) ed Exotica (1994), nonché al successivo Felicia’s Journey (1999), tanto per le tematiche in gioco – con particolare riferimento alle gravi perdite e ai tentativi di assorbirle – quanto per la messa a punto della struttura narrativa «frammentata, a mosaico, che cerca una ricomposizione nell’intreccio e nella messa in scena» (Malanga 1997; De Bellis, 2002).
La trasposizione allo schermo dell’omonimo romanzo di Russell Banks è stata paragonata a una partitura musicale (cfr. Malanga, ibid.; McGilvray, 1998; Zevelinsky, 1998) grazie alla qualità evocativa della narrazione che, pur conservando una complessiva compattezza e una costante tensione, sposta continuamente il suo fuoco nel tempo e nello spazio sull’onda dell’attuale stato emotivo (straordinario il lavoro di montaggio effettuato da Susan Shipton, nonché l’affiatamento degli interpreti al ritmo sincopato del racconto). Sicché, i differenti punti di vista dei personaggi nei differenti momenti si moltiplicano, si diffondono, si allargano in modo embricato e sovrapposto, più che semplicemente alternato, parallelo o simmetrico. A volte all’interno di una singola scena compare un elemento che la ridefinisce o allude a qualcos’altro che ne arricchisce e ne complica il senso. Lo spettatore deve ogni volta ristrutturare la sequenza degli eventi, il loro significato all’interno della vicenda e specialmente il significato intimo relativo al singolo personaggio di volta in volta in gioco.

: se non hai visto il film, ti consiglio di rimandare la lettura a dopo la visione

I quattro protagonisti

Come in Banks, nel film di Egoyan ci troviamo di fronte a quattro personaggi centrali della storia: Dolores Driscoll, l’autista del bus scolastico uscito di strada; Billy Ansel, il meccanico vedovo che, seguendo col suo pick-up il medesimo bus per salutare i propri figli, vede la sciagura svolgersi a pochi metri da lui; l’avvocato Mitchell Stephens, che si precipita nella cittadina di Sam Dent al fine di organizzare una causa collettiva per presunte responsabilità nel grave incidente; Nicole Burnell, la quattordicenne superstite, restata paraplegica. Questi quattro soggetti, ognuno a suo modo, interagendo le proprie pene tra di loro (e non solo), si cimentano in un tormentato percorso interiore che alla fine li conduce a una sorta di adattamento aspro ma lucido al contesto esistenziale successivo alla tragedia. Come osserva Billy nel romanzo: «Per me e forse per alcuni dei ragazzi che sono sopravvissuti all’incidente […], per noi c’è stata la vita, la vera vita, la vita reale, indipendentemente da quanto brutta potesse sembrare, solo prima dell’incidente, e nulla di quanto è accaduto dopo l’incidente poteva assomigliare a essa per nessun aspetto sostanziale. È come se fossimo morti anche noi, quando l’autobus è uscito di strada… e adesso siamo momentaneamente finiti in una specie di purgatorio, in attesa di essere trasferiti nel luogo dove ci hanno preceduto gli altri morti».

Prendendo dunque in considerazione la prima di queste quattro figure principali, in una delle immagini conclusive di The Sweet Hereafter vediamo Dolores che ha cambiato città e, pur esercitando la medesima professione di autista di bus, tratta solo con passeggeri adulti e li intrattiene con il suo stile cordiale e scherzoso. Le foto che costellano la parete del suo soggiorno sottolineano lo speciale legame coi ragazzi – rilevato anche da Nicole nel flashback della fiera di Sam Dent l’estate precedente e accennato nelle poche scene sull’autobus prima dell’incidente –, come un generoso e ludico cameratismo dove la responsabilità “genitoriale” è comunque esercitata in pieno (anche nel senso di tenere una qualche forma di disciplina: i rissosi sono messi in guardia con la minaccia di andare a scuola a piedi). Nel dialogo con Mitchell emergono in maggior misura i sentimenti e forse anche le fantasie sui bambini che tutte le mattine ha accompagnato a scuola (le osservazioni partecipi e affettuose su Bear Otto e su Sean Walker, la metafora dei mirtilli-berries). Sentitasi giudicata dal suo ambiente di appartenenza – secondo quanto lei “traduce” dalla disartrica dichiarazione di Albert – e con ogni probabilità giudicata anche da un punto di vista formale nell’inchiesta, dopo la testimonianza di Nicole, Dolores si ricicla altrove, ma si direbbe restando se stessa: le frasi di circostanza dette ai passeggeri mantengono qualcosa del tono giocoso utilizzato in precedenza coi ragazzi, anche se sono più artefatte. Tuttavia, come si può apprezzare dal confronto con i discorsi di Wendell Walker (che spettegola malignamente su tutti i concittadini), Dolores resta una donna leale che non dice male di nessuno (si vedano i suoi commenti su Billy e sugli Otto), vive intensamente la perdita e la colpa, si rapporta con tenerezza al marito paralitico – simmetria “complementare” con la paraplegia di Nicole –, e in quell’attimo nel finale dove il suo sguardo incrocia quello di Mitchell fa un cenno di saluto o addirittura d’intesa all’avvocato. Accettazione dell’ineluttabile, in una specie di agnizione tra simili? Come gli altri tre, alla fine Dolores rifiuta, col suo abito mentale di fondo e l’“uso” della comunicazione privata con Albert, il percorso della Rabbia Persecutoria proposto con enfasi da Mitchell Stephens, che al termine dell’incontro con lei si lancia in un’arringa circa la “salvaguardia”della sua immagine e della sua sofferenza. Senza la viscerale intolleranza di Billy o l’amarezza di Nicole, ma in modo altrettanto reciso, Dolores prende le distanze da tutto ciò. Già proveniente dal lutto dell’ictus del marito, con cui attivamente interloquisce, essa è la colpevole ufficiale designata: è lei di fatto la causa della morte di quattordici bambini e dell’invalidità della quindicesima. E,per giunta, porta il fardello di colpa della responsabile sopravvissuta. Ma può tuttora riconoscere se stessa in una logica propria, e forse in un’etica personale: come se le sue istanze morali le consentissero appunto di vedersi in una precaria ma vivibile prospettiva. Malgrado tutto, nel futuro.

Per quel che concerne Billy Ansel, egli parrebbe il personaggio più lucido fin dall’inizio. Verosimilmente perché già aduso a tollerare una perdita incolmabile come quella della moglie adorata, egli, oltre a occuparsi dei due gemelli (bimbi nel complesso sereni a quanto si vede) fa di tutto per svolgere la sua parte di Padre simbolico anche nei confronti di Nicole (la fiducia nel farle fare da baby-sitter, il dono dei vestiti di Lydia – suggerita un’identificazione con una Madre bella e amabile, con una splendida voce? – e la cassetta con gli arrangiamenti delle canzoni. I fari della macchina che illuminano la vetrata di casa Ansel nell’explicit sono probabilmente quelli di Billy, pur alludendo ai successivi di Sam (i due possibili Padri); non è un caso che Nicole decida di mandare in malora l’Azione Legale proprio dopo avere ascoltato la conversazione tra Billy e i suoi genitori: un possibile riferimento a una vera figura Terza strutturante sia nel senso della differenziazione (rispetto all’approccio confusivo di Sam) sia in quello dell’istanza morale (i genitori di Nicole risultano mediocri,“piccoli”, attaccati al miraggio del risarcimento in denaro). Il sobrio meccanico è molto preciso a questo riguardo: offre ai Burnell la somma già ricevuta dalla scuola e si appella ai valori comunitari di Sam Dent. La sequenza del confronto con Mitchell, con le minacce di botte e tutto il resto, è “rimontata” nella traduzione cinematografica: più congrua psicologicamente nella sua risoluzione, anche perché l’avvocato riceve in quel momento la seconda telefonata della figlia. Billy è venuto a guardare il bus ammaccato in una sorta di solenne e privatissimo raccoglimento (si toglie il berretto), quasi come si visita una tomba (cfr. Bouquet, 1997), e la presenza di Stephens è per lui affatto fuori posto. L’atteggiamento di Ansel risulta perciò ancora più esplicito e in certo modo vincente rispetto al romanzo. La sua rabbia contro la malasorte, che gli ha addirittura mostrato la scena dell’incidente da vicino e in tempo reale, non può essere incorporata nel disegno di definizione persecutoria intentato da Stephens: Billy si rifiuta di concedere all’avvocato anche una possibile solidarietà tra padri orbati. Lo lascia lì a vaneggiare da solo, senza replicargli nulla, voltandogli le spalle con un’occhiata di disprezzo. Pure sulla relazione clandestina con Risa Walker il solido garagista si è fatto già in partenza pochissime illusioni, senza peraltro indulgere al cinismo: la storia sembra terminare perché le loro posizioni a fronte della tragedia e della causa promossa da Mitchell sono lontanissime (per l’amante c’è perfino una spiegazione magico/superstiziosa), ma la condivisione affettiva è sempre stata piuttosto limitata. Acuta la riflessione, contenuta anche nel libro, che per Billy i momenti migliori del loro affair fossero quelli dell’attesa al buio, durante i quali egli, fumando, ripensava alla sua vita di prima – un lento, difficilissimo, forse interminabile processo di metabolizzazione della perdita (si veda Kernberg, 2010).

Mitchell cerca di convincere gli Otto, i Walker, Billy, Dolores, Nicole e i suoi genitori che l’ineluttabile non sussista. Cosa che Ansel ricusa da subito. Per lui la morte della moglie e la morte dei gemelli costituiscono una perdita davvero inemendabile: lo era forse già dopo la scomparsa di Lydia, ma con quella dei due bambini la sua sembrerebbe un’esistenza definitivamente spezzata, che, nondimeno, egli si dispone ad assumere con coraggio – non c’è il degrado della sua “nobiltà”, accennato alla fine del libro. Nell’ultima inquadratura che lo concerne vediamo Billy assistere alla rimozione della carcassa del bus con un piglio sempre deciso, concentrato e “rispettoso” (al pari dell’occasione precedente, si è tolto il berretto, come dinnanzi a una tumulazione). Anche per il garagista, a differenza di quanto accade nel romanzo, si tratta di una forte affermazione identitaria, che gli consente di sopravvivere psicologicamente nel hereafter senza infingimenti o manovre oblique. Dei quattro personaggi centrali della storia Billy è quello più radicalmente solo e che accetta virilmente di esserlo.
Per parte sua, l’avvocato, recatosi sul posto senza essere invitato, vuole dare il via, rispetto alla sciagura, a un progetto sistematico e grandioso: mediante esso, infatti, egli intende reintrodurre un senso, e un senso “perentorio” nel vuoto lasciato dall’evento traumatico. Escludere di netto la casualità (l’“accidentale”, the accident), riaffermando onnipotentemente la causalità. Ispirato a una morale primitiva e giustizialista, il programma di Mitchell individua con pervicacia uno o più colpevoli, esportando furori e ambivalenze al di fuori della comunità (e di sé) e rimettendo un ordine “assoluto” e semplificato nel mondo. Grazie al drenaggio della frustrazione e dell’impotenza, tutti gli adulti coinvolti nella causa immaginano di ritrovare una Buona Identità Genitoriale nel vendicare i bambini perduti, onorarne la memoria e ritenere di prevenire simili tragedie (“tutti” i bambini in potenziale pericolo verrebbero salvati). È secondo questo vertice che l’avvocato parla ripetutamente del futuro (con gli Otto, con Nicole): a ristabilire non solo il flusso temporale ordinario, ma altresì un controllo fantasmatico su di esso. Viceversa, dopo la sconfitta del collaudato progetto di diniego in seguito alla deposizione di Nicole Burnell, Mitchell non desiste dall’inseguire la figlia, rinunciando alla collera paranoide che ha caratterizzato tutta la sua condotta a Sam Dent.
Parrebbe comunque un processo graduale: la prima parte del colloquio con Allison sull’aereo è tuttora permeata di rabbia impotente (lo “steaming piss” in cui si è tramutato l’amore paterno). Invece l’episodio della mancata tracheotomia è diversamente contestualizzato rispetto al testo letterario. Viene introdotto da un «Ogni volta che vado a trovare Zoe, mi ricordo…» e non è, come in Banks, l’epitome della Rabbia Lucida e Organizzata: «La stessa dura scossa di intelligenza strutturata». Il racconto dell’avvocato è proposto con la massima asciuttezza che contrasta con le immagini molto “costruite” del cottage in North Carolina (si vedano McGilvray, ibid.; Malanga, ibid.): è quasi tutto un primissimo piano di un intenso ed essenziale Holm, a macchina da presa pressoché ferma. Ovvero, mentre nel romanzo la vicenda relativa a Zoe bambina costituisce la premessa psicologica della Causa Collettiva, in Egoyan farebbe invece pensare a un’ostinata determinazione a non abbandonare la figlia, a restare lì, a continuare a fare il padre per quel pochissimo che gli è ancora possibile, nonostante la caduta di ogni speranza. Anche in questo caso entra forse in campo una riconoscibilità ai propri occhi, un potersi vedere un minimo in prospettiva: dunque, un’accettabilità di sé da parte delle istanze interne ideali e censorie (quelli che secondo la psicoanalisi sarebbero un Superio e un Ideale dell’Io relativamente maturi). L’evocazione del viaggio con la bambina in braccio riguarderebbe la situazione estrema, in cui si è trovato allora e si trova ancora. L’espressione di Mitchell nell’incontro finale con Dolores è di sorpresa e di imbarazzo (e di dolore, quando entra turbato nel taxi), ma non di raccapriccio o collera o vera vergogna; così come il gesto tenero verso Allison che dorme o l’occhiata al padre che discute con la bambina all’arrivo all’aeroporto; infine, merita rilevare che in questa sequenza l’abbigliamento casual dell’avvocato, insolito per lui, somiglia molto a quello consueto di Billy (berretto con visiera incluso). Mitchell – che nel romanzo dichiara di avere amato tantissimo la figlia – nell’assistere al progressivo disgregarsi di Zoe è costantemente confrontato, tramite le telefonate, ma anche nei suoi pensieri – alla perdita di un oggetto d’amore che gli si deteriora sotto gli occhi. La sua risposta fino alla vicenda di Sam Dent pare essere consistita nell’Ergersi a Rappresentante Legale di una Rabbia Collettiva, immedesimandosi con le “vittime” quel tanto che gli consente di orchestrare da abile regista un’universale messa in scena del diniego, consolidato e potenziato dalle rabbie dei singoli clienti.

Il suo motto è: gli incidenti non esistono, c’è sempre qualcuno che, più o meno cinicamente, ha commesso un errore. La sua intelligenza emotiva gli permette, altresì, – con l’eccezione di Billy e di Dolores – di mettersi strazio dei genitori “orfani”, i quali vengono convinti con facilità e rapidità all’azione legale. Quasi che Mitchell Stephens fosse in grado di esercitare su di essi una specie di potente seduzione primitiva.

Infine, Nicole Burnell. È quella che perde il futuro sulla sua pelle, direttamente. Gli altri tre sono adulti, oltre i quaranta, e al contrario vi si misurano in modo diverso, più mediato, simbolico, e dal punto di vista della “genitorialità”: nel senso che il loro proiettarsi nel futuro – la finzione di avere davanti una vita che si dispiega indefinitamente – si realizza tramite la collocazione delle proprie potenzialità nei bambini/figli. Per Nicole, invece, il trauma devastante condensa diversi elementi in modo più invasivo: da adolescente che si affaccia alla vita e fantastica di diventare una folk-singer, adorata da un padre giovanile e immaturo (e da una madre distratta se non connivente), si ritrova su una sedia a rotelle, capace di ispirare solamente compassione. I primi scambi coi genitori – e soprattutto con Sam – sono freddi, scostanti. Nell’incontro con Mitchell Stephens, a casa, Nicole è perplessa, cupa, impietrita: dice di non ricordare quasi nulla.Viceversa, in tutta la sequenza della deposizione si direbbe che prevalga l’amarezza, la malinconia, forse l’angoscia, ma altresì la ferma intenzione di mettere in discussione la trascorsa complicità col padre (con l’inerente corteo di fantasie venute meno) e il rifiuto dell’opzione illusoria suggerita dall’avvocato: gli occhi – bravissima la Polley, ora bambina, ora ragazza, ora adulta –, sovente pieni di lacrime, sono tenuti fissi su quelli del padre, con qualche breve scambio di sguardi col magistrato.
L’identificazione molto letterale con lo zoppino del «Pied Piper» è doppiata dalla voce-pensiero di Nicole che aggiunge alla poesia dei versi suoi. La giovinetta guarda in faccia il dolore per la “promessa” mancata (che include altresì la musica e il sogno della rockstar) e, ancor più, per la constatazione della sua essenza perversa. Sembra esservi soprattutto un bisogno di verità – di nuovo entrano in gioco istanze morali – piuttosto che il desiderio di vendicarsi di Sam; questi sia nella conferenza familiare con Mitchell sia nella conversazione con Billy rivela anche una certa gretta avidità, oltre a convogliare la sua delusione circa il futuro di Nicole e la rinuncia alla storia amorosa con lei nella Rabbia Collettiva Organizzata dall’avvocato.

Mitchell, che è decisamente meno arrogante nel film, non solo ha colto la dissonanza della domanda di Sam sull’entità del risarcimento durante la conversazione preliminare a casa Burnell, ma dopo la deposizione suggerisce allo stesso Sam di interrogarsi sul motivo della falsa testimonianza di Nicole, avendo intuito la complessità della situazione soggettiva della ragazza. Per costei la condizione (castrata) di disabile stronca alla radice alcune grandi aspettative sul futuro, nonché certe potenzialità evolutive, torbidamente intrecciate e invalidate dalle spinte regressive dell’incesto col padre. Un futuro fittizio, quello promesso da Sam, fondato su una mistificazione e su una logica di sdifferenziazione nell’ambito di un tempo circolare: di conseguenza, oltre all’affrontamento del senso di colpa della superstite, c’è quello del trauma incestuoso, costituitosi come tale per Nicole soltanto dopo l’incidente, e che richiede una presa di posizione forte e pubblica. In ciò troviamo di nuovo l’attestazione della Terzeità, secondo un’ottica forse mutuata da Billy e contrapposta all’universo claustrofilico e confusivo di Sam.
Infine, nell’explicit Nicole sembra rivolgersi allo spettatore, come colei che a distanza e dall’alto del dolce domani può compendiare il punto di vista dei quattro personaggi principali. Anzi, si potrebbe ipotizzare che Nicole, con la sua voce off, tra Browning e canzoni folk, abbia implicitamente svolto questo ruolo per tutta la storia e che lo spettatore sia invitato a ripensare l’intero testo cinematografico secondo questa morale conclusiva: considerare la vita di Nicole, di Dolores, dei sopravvissuti e dei morti come collocata nello sweet hereafter – in parte sono le parole di Dolores nell’ultimo capitolo del romanzo –, quel luogo purgatoriale «dove tutto è strano e nuovo». E lontano: come il remoto sorriso sul viso della ragazza, mentre sopra di lei gira la ruota panoramica della fiera di Sam Dent (dopo la deposizione e prima della sequenza dell’aereo). La sola risorsa rimasta ai protagonisti della vicenda in questa singolare dimensione esistenziale dove sono finiti è la lucidità, il non raccontarsela, il restare in contatto a tutti gli effetti con quel superstite brandello di sé. Nel testo di Banks c’è una fondamentale osservazione di Billy: «Quelli che hanno perduto i loro figli si contorcono, assumono le forme più strane per negare ciò che è accaduto. Non solo per via del dolore… ma perché ciò che è accaduto è così perversamente innaturale, così contrario al necessario ordine delle cose che non possiamo accettarlo. È quasi impossibile credere o comprendere che i figli debbano morire prima dei genitori. Sfida le leggi della biologia, contraddice la storia, nega il rapporto di causa ed effetto, viola i fondamenti della fisica. È l’opposizione estrema. Un paese che perde i suoi bambini perde il suo senso».
Oltre al fatto che l’esperienza incestuosa ha conseguenze in gran parte equivalenti, certi lutti sono forse insormontabili e hanno effetti comunque disgregatori sulla mente: il soggetto che sceglie di resistere alla tentazione del diniego può cercare di ridefinire le proprie amputate relazioni affettive, trovando una sorta di intimo accordo con se stesso e magari accedendo a contatti molto limitati e parziali (per Nicole la sorella minore; per Mitchell l’incontro temporaneo con un’amica della figlia; per Dolores il rapporto con Albert e, magari, gli scambi con i nuovi passeggeri adulti; per Billy, il più autonomo dei quattro, non si vede nessuno, dopo la rottura con Risa).

da Cineforum n.502

TRUE GRIT di Joel & Ethan Coen

25 Mag

Al di là (della frontiera) del bene e del male di Fabrizio Tassi

Da Werner Karl Heisenberg al Far West. Un bel salto davvero (all’indietro?). Dall’epoca dell’indeterminazione e dell’incertezza totale (la nostra) a quella delle presunte certezze (la vendetta!il coraggio! la libertà!), delle ragazzine determinate, della fondazione americana. I Coen ci hanno abituato a questo genere di vertigini. Anche se i Coen, a dire il vero, se ne fregano delle nostre paturnie critiche e fanno essenzialmente ciò che li diverte. Meglio per loro. E meglio anche per noi, che ci possiamo divertire a misurare la distanza che separa Larry Gopnik,“l’uomo serio”, quello che crede nelle leggi della fisica e nelle persone, ma si ritrova immobile e impotente, e Rooster “Grinta” Cogburn, il cowboy dude, che non crede più a niente, se mai ha creduto in qualcosa – a parte l’alcool (di cui abusa) e la pistola (che ormai usa maluccio) – ma che sa ciò che va fatto e lo fa. Certo è curioso che, appena usciti da una commedia ebraica, in cui l’assenza di Dio è rimpiazzata dai Jefferson Airplane (ché tanto agli uragani non si comanda, e neppure alle mogli fedifraghe), ci ritroviamo all’inizio di True Grit con un Proverbio biblico, che nella traduzione italiana risulta così, «I malvagi fuggono quando nessuno li insegue» («The Wicked Flee When None Pursueth»), e che per la precisione dovrebbe suonare «L’empio fugge anche se nessuno lo insegue».

Libro sui generis, quello dei Proverbi (Voltaire, col suo tatto proverbiale, ne parlava come di «Una raccolta di massime triviali, basse, incoerenti, senza gusto e senza disegno»), in cui Dio non parla, ma in compenso è onnipresente, vede nel cuore degli uomini e se ne frega se la legge terrena favorisce ricchi, furbi e potenti (con o senza legittimo impedimento), perché tanto alla fine ci pensa Lui a ristabilire la giustizia, già nell’al di qua (la distinzione fra trascendente e immanente è una sottigliezza maturata successivamente…). L’uomo è artefice del suo destino e «nulla è gratis in questo mondo, a parte la grazia di Dio». Lo sa bene la quattordicenne Mattie Rosse («Il giusto è sicuro come un giovane leone», dice di lei il verso successivo dei Proverbi), che è spinta da un sacro, ostinato fervore, e non è disposta ad accettare che il fuorilegge Tom Chaney la faccia franca e la morte di suo padre rimanga senza giustizia. Che la “mano di Dio” prenda in prestito quella di un vecchio alcolizzato senza scrupoli, è il bello del cinema, dell’America e del western, soprattutto nella versione sorniona dei fratelli Coen, che sposano l’epica ironica (epica in campo lungo, ironia nei dettagli) di Charles Portis, uno che celebrava il mito proprio mentre si impegnava a smitizzarlo.

Forse è per questo che il film, per lo più, è piaciuto a quelli che di solito non amano i fratellini filosofi e cinefili, mentre ha lasciato perplessi i loro cultori. Chi si aspettava una comicità più cinica e feroce, chi voleva una rilettura più ludica e cinica, chi avrebbe accolto con favore una qualche morale immorale (cinicamente parlando). A conti fatti, in questa impeccabile trasposizione del romanzo (mentre il film di Hathaway era una sua rilettura), c’è del sincero eroismo, una bella dose di affettuosa ironia, nonché una zampata finale di struggente malinconia. Tutto questo in una pellicola che all’inizio (ma solo all’inizio!) sembra una di quelle astrazioni cinematografiche (dagli sviluppi imprevedibili) dentro cui i Coen giocano il gioco dell’assurdo, del non-sense, della verità dell’assenza di una verità. Roba di testa, insomma. Anche roba buffa, tipo il primo dialogo tra l’eroina e un vespasiano con dentro l’eroe, e poi stacco veloce su una bara infilata dentro l’inquadratura in verticale, fatta probabilmente dello stesso legno di cui è fatto il bagno. Roba da “commedia di frontiera”, tipo il Grinta sorpreso nel letto col suo pigiama zozzo (quanto è graziosa la scenetta? quanto è clamorosamente Dude, Jeff Bridges?) o la sua espressione con la bocca aperta e la sigaretta penzolante dopo che la ragazzina ha attraversato il fiume a cavallo.

In realtà, più ci inoltriamo nell’avventura, più il racconto ci sembra concreto, diretto, addirittura limpido. Capiamo che gli orizzonti in “cinemascope” sono solo orizzonti in “cinemascope” (ci prendiamo una boccata d’aria, dopo la claustrofobia esperienza nella scatola di A Serious Man insieme al gatto di Schrödinger) e che le dissolvenze incrociate non fanno mimesi o citazione, ma sono la grammatica del film (e poco importa quanto siano realmente-sinceramente funzionali al racconto). Altro che sfacciata devozione/dissacrazione postmoderna. Siamo già oltre, a un altro tipo di classicità, che aderisce alla storia, ai personaggi, pur sapendo che è un’aderenza (ri)costruita, ricercata, estremamente consapevole. Intanto noi aggiustiamo le antenne sulle frequenze di questo western sbrindellato, con i suoi eroi da strapazzo guidati da una bambina quasi adolescente più testarda delle testarde paladine di Zhang Yimou e una faccia tosta impagabile, al punto che davanti al cadavere del padre se ne sta lì a litigare sul prezzo con il becchino (è un’idealista, bada allo spirito, non al corpo, il babbo non ha bisogno di devozioni, ma di giustizia). Lei sembra perfettamente a suo agio in questo “tempo di mezzo”, in cui la wilderness sta cedendo il passo alla civiltà, e la legge del più forte e del senso comune devono fare i conti con le regole e i codici. Cogburn è destinato a sparire, insieme al suo rozzo realismo e la morale umorale, che gli permette di rapinare una banca, di uccidere senza pietà, e allo stesso tempo di non sopportare che qualcuno maltratti un animale. Ma come la mettiamo quando non ci saranno più quelli come lui, capaci di atti eroici, di sacrifici sublimi? Lui alla fine ci va davvero a cavallo, con la briglia tra i denti, uno contro quattro. E quell’altro bellimbusto, il Ranger texano elegante e fanfarone, alla fine lo spara quel colpo da trecento metri e più. Mitologia western. Che peraltro svapora di fronte alla formidabile corsa finale nel buio, tra alberi, polvere, stelle e fantasmi, con il Grinta che traghetta la piccola Mattie dal passato al futuro. Per fare che, poi?

Cosa c’è dietro tutta questa lucida “trasparenza” cinematografica? E a quei «dettagli così vividamente realistici che sono diventati surreali» (per usare le parole che Ethan Coen dedica al romanzo di Portis)? Di sicuro, intorno, ci sono due inquadrature che fanno il film. La prima, con quel brillio sfocato al centro dello schermo nero, che sembra evocare il fascio di luce di una proiezione cinematografica, salvo poi definirsi e proiettarci davanti a una casa con veranda, dove sta il corpo morto del padre di Mattie, mentre la voce di lei racconta, rievoca, ricorda. E l’ultima, con quelle lapidi in primo piano, e la figura nera, severa, senza un braccio (rimasto in quell’altro mondo) della zitella acida, che cammina verso l’orizzonte, sempre più lontana. Nel frattempo il Far West è diventato un circo, una rappresentazione nostalgica. Quella stessa rappresentazione con cui, in fondo, ci balocchiamo da sempre al cinema. Incorreggibili Coen. La ragazzina diventata zitella non cita più Ezechiele, i Proverbi e la legge del taglione – che hanno fatto l’America anche loro. Forse ha scoperto che non valgono più della blasfema noncuranza del Grinta, uno che non credeva «nelle favole, nei sermoni e nelle promesse di denaro». Non può, non deve incontrarlo, in quel malinconico triste Wild West Show, fatto di vecchi sopravvissuti male e di attori camuffati da indiani. Lui era un’altra cosa. Lei era un’altra cosa, ora lo sa. E nel caso le venisse il dubbio che fosse stata solo un’avventura immaginaria, c’è il suo non-braccio a ricordarle la “verità”. Lei è stata nel territorio indiano, al di là di Fort Smith, l’ultima Frontiera: a quei tempi c’era un detto, secondo cui «Non c’è legge a ovest di St. Louis e non c’è Dio a ovest di Fort Smith». Noi già lo sappiamo che, anche quando Dio e la Legge arriveranno “dall’altra parte”, il mondo non sarà più bello, giusto e ordinato. Sarà solo diverso. È stata una dura, avventurosa, fiabesca, crudele iniziazione per questa ragazzina, col suo incrollabile americanissimo individualismo, come sono americane le contraddizioni di sempre, fuga/radici, natura/civiltà, egoismo/solidarietà, leggenda/realtà. Lei porterà sul corpo e nell’anima il prezzo della vendetta consumata. Lei che ha constatato di persona la distanza insanabile che c’è fra ciò che è giusto e ciò che desideri, tra ciò che vorresti e ciò che è.

 Tutte cose già dette? Certo, ci mancherebbe altro. Quando mai i Coen hanno voluto dire cose nuove? Al massimo hanno (s)velato ciò che di solito non riusciamo o non vogliamo vedere. Dopo il buon Gopnik, che ha dovuto fare i conti col caos, l’irrazionale, l’indeterminato, il mistero, ci ritroviamo con una ragazzina alla prese col cielo stellato sopra di sé e la legge morale dentro di sé. Lei che ci aveva spiegato la differenza tra un atto sbagliato in sé e uno sbagliato secondo le nostre leggi e costumi. Il diritto affonda lì le sue radici, e in quella logica il bene diventa ciò che è legale e il male ciò che è proibito, rendendo complesso (di fronte all’affermazione della nostra libertà) un discorso etico universalmente valido (diceva Leopardi: «Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva»). Intanto, però, l’empio fugge, che sia inseguito oppure no (da un cowboy o da un qualche dio), perché sa di essere un empio. E questa, forse, è già una punizione in sé. Ma quando non lo saprà più…? Discorsi troppo complicati per un film spiritoso e malinconico? Può darsi. È anche vero, però, che in questo racconto c’è più contrattazione che azione. Si discute molto su qual’è il prezzo da pagare per ottenere qualcosa. La sfida uno contro cinque, la fucilata da trecento metri, sono cose dell’altro mondo, quello che non c’è più, se mai davvero c’è stato. Di sicuro noi siamo rientrati in quell’epoca e quel “genere” attraverso lo sguardo fresco, irriverente, ostinato (lei compare dietro il vetro di un treno, su cui è riflesso il West) di una ragazzina che indossa panni più grandi di lei. E ne usciamo vestiti a lutto per la perdita di qualcosa che ci addolora mortalmente, ma che dovevamo perdere per forza. Il tempo ci sfugge…

da Cineforum n.502

INCEPTION di Christopher Nolan

17 Apr

La metafora dello sprofondamento di Luca Malavasi

Da dove hanno origine, a cosa servono e cosa fanno le immagini? Come entrano nella realtà, e quanto possono incidervi? Mascherato da film onirico, con tanti ascensori in su e in giù tra la veglia e il sonno, Inception è soprattutto un film (filosoficamente aggiornatissimo) sui desideri e sulle paure che alimentano le immagini – tutti i tipi di immagine – e che governano il nostro rapporto (di bisogno) con le immagini – un bisogno antropologico e forse prima ancora biologico di arredare il mondo – tutti i tipi di mondo – di immagini. E parlando di bisogno e necessità, paura e desiderio smettono di essere condizioni diverse e lontane. La necessità (di immagini) somiglia a una spinta irrefrenabile: il piacere, dunque, è l’altra faccia di una pericolosità certificata dal bisogno stesso.
Inception è la storia di questa storia. Che è, al tempo stesso, antichissima – quanto l’uomo – e perennemente nuova, rinnovata dalla vita, dalla morte e dalla risurrezione continua dell’immagine. È, anzi, due storie, o due sponde di questa storia: da un lato, una storia d’amore e desiderio mediata dall’immagine, e anzi ormai sublimata in un rapporto ossessivo con l’immagine; dall’altro lato, è una storia di violenza e inseminazione artificiale, in cui l’immagine è un’arma maneggiata consapevolmente, un oggetto destinato a cambiare il destino dell’uomo.

La prima storia non è dunque l’avventura spionistica di Dominic “Dom” Cobb, che entra e esce dai sogni altrui per rubare e seminare, raccogliere e trapiantare – lynchianamente consapevole che ci sono strati e livelli, ma mai inizi e fini. No, la prima e la più bella storia di Inception – quella che lo scalda e trasforma nel miglior mélo degli ultimi anni, tanti anni – è la relazione d’immagini tra Dom e la moglie Mal, la persistenza dell’immagine della seconda nella vita del primo. Mal è la donna del ritratto di Lang – Matrix (id., 1999) non c’entra niente, il noir sì e tanto – e il ritratto è la donna, senza soluzione di continuità. Perché qui, a differenza di Memento (id., 2000), la questione non è la linea(rità) del tempo ma la consistenza dei corpi; e qui, a differenza di The Prestige (id., 2006), l’ambiguità non è quella di due che sembrano uno, ma quella di un corpo che distilla un’infinità di immagini dotate del potere – di agire e di essere – di un corpo, e della volontà di una donna di cui si è ancora innamorati.
Dom ama e ha paura, scappa da Mal e però, segretamente, fa il lavoro che fa perché lì, appena chiude gli occhi, sa che Mal comparirà. Il desiderio passa attraverso l’immagine, paura e desiderio, amore e desiderio; il confronto è doloroso, l’attrazione inevitabile. Perché Nolan – che con Inception, tra le altre cose, consegna il primo film che chiude i conti col decennio americano governato dalla crisi iconica scaturita dall’11 settembre – non parla semplicemente di simulacri e doppi, di corpi che si disfano e di immagini che si incarnano; non parla semplicemente di sogni che diventano realtà e viceversa. Nolan fa un passo avanti, e aprendo, fino al punto di romperli, i margini del noir – margini anche morali – racconta di un nuovo mondo di immagini e, soprattutto, del lavoro delle immagini sul e nel mondo, delle loro conseguenze, del loro impiantarsi, moltiplicarsi, diffondersi, animarsi.

Finora, il cinema americano più avveduto ha fatto i conti con l’11 settembre attraverso le immagini; con Inception, Nolan ragiona invece sul lascito e l’eredità, sul potere delle immagini e sulle conseguenze della loro “ingestione” nel mondo. Le immagini restano immagini, nessun inganno; siamo fortunatamente lontani da discorsi frettolosi su processi di sostituzione o di fin troppo facili conversioni (la vita non è sogno, e la realtà resta – in tutto il film – molto ben segnata). Attraverso un noir spionistico – questa è l’altra storia
– Nolan parla di guerre, di nuove e, insieme, di antichissime guerre, combattute nel nome delle immagini, a causa delle immagini, contro le immagini, per mezzo delle immagini (1); parla di un nuovo spessore delle immagini, e del presente (antichissimo) dell’immagine: che non è, stando al banal-sociologico, quello di influenzare o confondere, spostare voti o percezioni, ma è quello – religioso – di uccidere e “iniziare”, di cambiare radicalmente le sorti dell’esistenza mentre tutto sembra rimanere uguale. Nel film che scorre durante il viaggio in aereo, tra il sonno e la veglia, tra due momenti identici e banali, c’è un’ellissi di un’ora e mezza durante la quale tutto si compie. Ma nella realtà di un volo aereo non è niente, è lo spazio vuoto e indifferente tra gli occhi che si chiudono e gli occhi che si aprono. Eppure, è proprio in quell’ellissi della coscienza che accade tutto, e che il presente si trasforma in futuro, in un futuro diverso. Nolan non gioca, né si diverte. La “struttura” – che è la cosa per certi versi più indifferente del film, e non interessa a nessuno se i conti tornano oppure no, se tutto funziona oppure no – è l’immagine piramidale e al tempo stesso fluida, priva di contorni e confini, di una disseminazione infinita dell’immagine. Non, però, nel senso dell’ampiezza – di questo si sa già tutto, e dell’“orizzontalità” invasiva della rete si è già detto e scritto fin troppo. Nolan, al contrario, racconta l’immagine attraverso la metafora del crollo e dello sprofondamento – ed è qui, su un piano prettamente figurativo, e quindi sostanziale, che Inception finisce per incrociare il dibattito attorno alla correità iconica (2) dei media nella tragedia dell’11 settembre.

Inception parla di immagini che cadono e penetrano, di immagini che scivolano negli interstizi di costruzioni solide come la realtà, trasformandola radicalmente ma insensibilmente. Detonazioni distruttive e al tempo stesso, almeno all’apparenza, invisibili. Ma Nolan sa bene che la vita dell’immagine, il suo perenne e istantaneo apparire e sparire, non coincide mai davvero con la sua effettiva presenza; e, dunque, con il suo lavoro, che è lento, profondo, nascosto. La narrazione stessa di Inception parla di questo lavoro, e descrive il tragitto virale dell’immagine contemporanea, indicando perfettamente un’azione del visivo ormai sottratta al controllo razionale e alla speculazione, perché collocata in un territorio fuori controllo, onirico solo nella forma (è, per l’appunto, il territorio di un’ellissi, di una distrazione umana, di un’ingenua valutazione dei modi di presenza e di azione dell’immagine). E il “saggio”, infine, parla anche di responsabilità. E lo fa – continuando un discorso in linea con le logiche morali del noir – rimandando tutto alla vittima, da cui è tolta ogni possibilità di salvezza. Proprio nell’intreccio di paura e desiderio, ossia nel racconto di due modi apparentemente diversi di essere con le immagini (per tenere in vita l’amore e il passato, e per terremotare il presente e il futuro), Nolan suggerisce un’ambiguità originaria, una necessità dell’immagine che, appunto, oscilla continuamente tra dannazione e godimento, tra un bisogno affettivo di presenze vicarie e un rifiuto della persistenza visiva del passato. Nolan lavora insomma come un sub in discesa libera, via via sempre più appesantito e al limite
soffocato dalla pressione di quello che, nella discesa, resta sopra; Inception è un film pieno di memorie, pieno delle vite lunghe delle immagini, del loro tempo non umano, del loro peso variabile (fino all’assenza di gravità), del loro spessore non calcolabile, dei loro confini mai chiaramente tracciati.Vite che impongono continue discese e risalite – e non semplici movimenti di avanti e indietro. Ma è sprofondando in queste vite che l’uomo, da sempre, fa i conti con la realtà.

(1) Il riferimento è al libro di Serge Gruzinski, «La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner», SugarCo, Milano 1991.
(2) Di correità iconica del cinema in relazione alla tragedia dell’11 settembre scrive Roy Menarini, Il complotto del tempo, «Cinergie» n. 20, luglio 2010.

da Cineforum n.498

THE TIME THAT REMAINS di Elia Suleiman

16 Set

da CINEFORUM n.496

Una risata vi dirà la verità di Pietro Bianchi

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C’è un che di tragicamente ironico nel pensare che la data di uscita prevista dai distributori italiani per Il tempo che ci rimane nelle nostre sale fosse proprio il 4 giugno. Ovvero, giusto qualche ora dopo che l’esercito israeliano decidesse di attaccare con un’operazione militare senza precedenti una nave di aiuti umanitari e militanti pacifisti (la Gaza Freedom Flotilla) diretta verso la striscia di Gaza. Se molti (e a ragion veduta) si sono affrettati a definire il gesto “terroristico” non è tanto dato dall’indubbia inflazione nell’uso giornalistico del termine, quanto dalla natura – tecnica, per così dire – dall’azione: militare a danno di civili inermi. La sensazione provocata dall’evento ha riportato all’ordine del giorno del dibattito la questione dello status di Gaza e della presenza militare israeliana nei territori occupati. Il film di Suleiman finisce così per beneficiare del consueto ritardo distributivo italiano che vede uscire nelle sale un film vecchio di più di un anno. Ma questa volta è proprio una fortuna. Non c’è infatti commentario migliore alla caricaturale e costante riduzione della Palestina a covo di fondamentalisti che questo film, denso e stratificato, ci regala, anche solo per poco più di un’ora e mezza, una partigiana eppure necessaria esperienza della visione. Suleiman fa un’operazione semplice: prende un testo storico, ovvero il diario di suo padre, combattente durante la resistenza del 1948 e lo incrocia con i propri ricordi di ragazzo, cresciuto come “straniero in patria”, ovvero in quella minoranza di arabi trasformati in cittadini israeliani, (di serie B) tra quelli che avevano rifiutato di andarsene dal loro paese per intraprendere un’esistenza da profughi, che diverrà pluri-generazionale, fino al giorno d’oggi. Ma gli stacchi tra le generazioni non si sentono o quasi. Lo sfondo rimane identico, il vicino dice sempre le stesse cose e tenta sempre di darsi fuoco. L’atmosfera che si respira è asfittica e il tempo sembra quasi accalcato su se stesso, costellato dai dettagli di un’occupazione grottesca che con gli anni si fa più muscolare ma non certo meno insensata. Il racconto generazionale dunque, svolto nell’arco di cinquant’anni, cede i panni del romanzo di formazione per indossare quelli paradossali dell’eterno presente, figura rovesciata del tempo che passa e si iscrive nella storia: “tempo che rimane” dunque, sempre uguale a se stesso. Come i volti, dello stesso Elia o del padre, che col tempo invecchiano, ma non cambiano espressione: attonita, bloccata, eppure che non rinuncia all’atto di resistenza.

San Paolo palestinese

È in un atto di resistenza contro la temporalità dell’attesa che il film di Suleiman costruisce la propria cifra. Ed è quindi un’altra, paradossale, coincidenza quella che dunque ci colpisce al riguardo: quella con il lavoro di Giorgio gamben su San Paolo e il messianesimo ebraico, che non a caso vanta pressoché lo stesso titolo: Il tempo che resta. In questo libro Agamben costruisce in un commento serrato a un unico versetto della “Lettera ai Romani” una critica di quella che si è consolidata come la più diffusa interpretazione del tempo messianico: ovvero l’idea che sia un tempo dell’eterna incompiutezza, di ciò che è a-venire, ma che non troverà mai realizzazione. Non è forse il tempo dell’attesa per eccellenza quello del prossimo arrivo del Messia? Non così per il San Paolo di Agamben. Il tempo messianico non è la fine del tempo, ma il tempo della fine. Non è il punto finale del tempo, è semmai il tempo che incomincia a finire e che in questo modo si trasforma qualitativamente in ogni istante. La fine è sempre in corso, la fine si esperisce in continuazione. Dunque il suo affetto non è l’attesa, ma l’inquietudine, il disagio. E dunque la resistenza. Suleiman, attraverso la figura del padre e poi di se stesso, costruisce due figure maschili fuori dalla temporalità presa in ostaggio dall’occupazione, eppure in costante tensione e disagio con il presente. L’estraneità è spaziale (stranieri nella propria terra) e allo stesso modo temporale: una doppia esperienza soggettiva che si ribella al destino che li vorrebbe parte integrata e muta del destino della colonia. È una resistenza che non ha luogo per materializzare se stessa (gli uomini sono in attesa al bar come prima lo erano con i fucili al collo) e che non ha il tempo dell’utopia. Ma è una resistenza che si sottrae, singolarmente con il gusto del dettaglio sempre denso di storia, anche quando si fa intimo e famigliare. Non c’è che dire: una strana sorte quella di un film palestinese che finisce per ricordare l’inquietudine del tempo messianico, ovvero il tempo ebraico per eccellenza.

La maschera e la verità

Ma come rendere visivamente l’esperienza della separazione, dell’inquietudine, dell’estraneità? Non certo tramite il registro drammatico dello scontro tra due atti di forza finanche violenti, come ci insegna la sterile chiacchiera politica della misurazione geometrica dei torti e delle ragioni. Piuttosto tramite il registro della commedia, che già Hegel per quanto riguardava la commedia greca considerava come un alto strumento speculativo perché esponeva l’apparenza in quanto tale. Suleiman infarcisce con garbo l’intera pellicola di piccoli momenti comici: dal soldato irakeno che si perde all’inizio del film; alla jeep di militari israeliani che devono richiamare una discoteca palestinese al coprifuoco e che finiscono per scandire il tempo con le proprie teste; allo stesso regista, che tenta con un salto con l’asta di superare il famigerato muro che divide la Cisgiordania. Ma faremmo un errore a pensare che il registro comico metta una distanza leggera tra la maschera dei personaggi grotteschi che popolano questo film e la realtà bruta dell’evento storico più tragico. Semmai è prendendo alla lettera la sua apparenza di superficie che l’evento espone la propria verità più scomoda, come quando i soldati israeliani all’inizio del film, durante l’occupazione di Nazareth, si travestono da guerriglieri palestinesi e freddano una donna che si mette in strada a incoraggiarli. La maschera non nasconde la verità, semmai ce ne rimanda la sua forma più pura. E così Suleiman riesce a trovare, nel frammento e nel personaggio di contorno, quella dimensione resistente della rappresentazione e quel momento di verità politica che altrimenti si perderebbe nella partitura consolidata con la quale si rappresenta e si mette in immagine l’occupazione israeliana.

Ci ricorda Alenka Zupancic che storicamente, al cinema e in letteratura, esistono almeno due paradigmi del comico, molto distanti l’uno dall’altro, nonostante solitamente vengano confusi. L’arte comica si può costruire infatti tramite il procedimento della demistificazione o dello svelamento secondo la quale “l’apparenza inganna” e dietro le insigne del potere vi sia sempre un re nudo. Procedimento che tuttavia non è in grado di cogliere il carattere di verità dell’apparenza stessa. Oppure il comico può essere dato da un procedimento di montaggio: ovvero tramite il raddoppiamento/duplicazione di più apparenze secondo un procedimento che tenta non tanto di cogliere la falsità dell’apparenza, quanto di capire come funzioni. È in questa esposizione dell’assurdità delle maschere che ci vengono regalati i momenti migliori, come quando un ragazzo intento a parlare al cellulare viene seguito a pochi centimetri da un blindato gigantesco che segue passo passo la sua conversazione privata (scena comica da manuale, che misura l’assurdità della distanza tra la grande militarizzazione del territorio e l’intimità della conversazione privata nell’assurdità della loro sovrapposizione); oppure quando a margine di uno scontro tra ragazzini che tirano le pietre e carri armati israeliani che rispondono, una donna con un passeggino cerca di forzare un posto di blocco e viene fermata da dei soldati che le ordinano “Signora vada a casa!” e ai quali lei replica “Ma andatevene voi a casa!” (dove naturalmente il significato del termine “casa” sovrappone l’occupazione della Palestina con il registro domestico). È in questi momenti, semplici eppure assolutamente intensi, che il film di Suleiman raggiunge delle vette quasi speculative. Perché non si limita soltanto a farsi da controcanto alla rappresentazione degradata della Palestina dei tempi che corrono attraverso la storia di una famiglia – colta e cosmopolita – che certo si adatta poco al luogo comune rozzo e integralista con il quale è stata ridotta la rappresentazione degli arabi in Medio Oriente. Ma che ci ricorda anche come la procedura del comico, se liberato dal qualunquismo della “presa di distanza”, possa ancora al contrario costituire un’efficace e affatto politica “presa di parola” per il presente.