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THE SILENCE OF THE LAMBS di Jonathan Demme

22 Set

Sequenze costruite con superba maestria tattica di Rudy Salvagnini

Un serial killer soprannominato Buffalo Bill semina morti a ripetizione. Jack Crawford, agente dell’FBI, pensa che per prenderlo sia necessario ricorrere alla consulenza di Hannibal Lecter, un serial killer cannibale rinchiuso in isolamento in un manicomio criminale. Crawford incarica la neoagente Clarice Sterling (Jodie Foster) di incontrare Lecter e invitarlo a collaborare. Clarice va a trovarlo in carcere e tra lei e il cannibale si sviluppa una strana relazione cui non è estranea una complessa ammirazione reciproca.

Dopo che la sua precedente apparizione in Manhunter – Frammenti di un omicidio era passata pressoché inosservata, in questo secondo tentativo il personaggio del geniale serial killer cannibale Hannibal Lecter fa il botto, diventando di colpo uno dei “mostri” più popolari del cinema e contribuendo all’ambigua “eroificazione” dell’omicida seriale che ha caratterizzato parecchio cinema “psicopatico” successivo. Merito di Demme, che ha cucito attorno alla sottile e istrionica interpretazione di Anthony Hopkins un thriller orrorifico di rara precisione ed eleganza stilistica e anche naturalmente efficace nella creazione della suspense con parecchie sequenze costruite con superba maestria tattica. Ottimo anche l’apporto di Jodie Foster nel ruolo della tormentata agente che stabilisce un rapporto preferenziale con Hannibal che qui, diversamente da Manhunter, è protagonista assoluto. Visualmente, Demme riesce a conferire toni da romanzo gotico – con la strana e oscura segreta dove è rinchiuso Hannibal – a un thriller urbano che avrebbe potuto essere banale in altre mani. Grande successo di pubblico: oltre 270 milioni di dollari lordi di incasso mondiale con un budget di 19.

PSYCO di Alfred Hitchcock

1 Set

Il film che ha creato un genere di Rudy Salvagnini

Marion Crane (Janet Leigh), impiegata modello, tenta un improvviso colpo di vita e si impossessa di 40.000 dollari di un cliente del suo principale, approfittando della fiducia riposta in lei. Fuggita in auto, Marion si ferma a pernottare al Bates Motel, gestito dal gentile Norman Bates (Anthony Perkins), che si prende premurosamente cura anche della mamma anziana e malata che vive in una cupa casa dietro il motel. Ma nella notte Marion viene trucidata e la sorella Lila (Vera Miles) comincia a cercarla con l’aiuto del fidanzato di Marion, Sam (John Gavin), e del navigato detective privato Milton Arbogast (Martin Balsam).

Girato in bianco e nero, con un budget ridotto, da un Hitchcock in stato di grazia, è il film che ha creato un genere, lo psycho-thriller. Implacabile e geometrico, è un capolavoro assoluto che va ben al di là dell’ingegnoso, ma non trascendentale, copione che Joseph Stefano ha tratto da un romanzo di Robert Bloch. Pieno di scene magistrali (a partire da quella della doccia, proverbiale) e di trovate che incidono sulla struttura narrativa (la morte a sorpresa di quella che sembra la protagonista), si àncora anche su personaggi interessanti resi da ottimi interpreti (tra cui spicca Martin Balsam in quello che diventerà il prototipo di un certo tipo di detective), ma soprattutto sulla meravigliosa interpretazione di Anthony Perkins che aveva già fatto un personaggio roso da turbe psichiche in Prigioniero della paura, ma qui definisce gli standard per la rappresentazione di uno psicopatico. Geniale.

I TRE VOLTI DELLA PAURA di Mario Bava

31 Ago

Ossessioni cupe e sapienza pittorica di Rudy Salvagnini

Film in tre episodi. Nel primo (Il telefono), Rosy (Michèle Mercier) torna a casa dopo una serata e viene minacciata da qualcuno al telefono. Impaurita, chiede aiuto a un’amica. Nel secondo (I wurdalak), Vladimir (Mark Damon) arriva in casa di una famiglia il cui patriarca, Gorca (Boris Karloff), sta per tornare dopo essere stato a caccia di un terribile vampiro, ma il tempo passa e il pericolo che egli stesso possa tornare come vampiro aumenta. Nel terzo (La gocciad’acqua), un’infermiera sfila un anello a un’anziana appena morta, ma tornata a casa si sente minacciata da una presenza ultraterrena. Capolavoro di Bava che riesce a cogliere elementi di grandissimo interesse visuale in ciascuno dei tre diversissimi racconti.

Campione di economia narrativa e maestro del colore come pochi, arricchisce di suggestioni cupe e oscure le immagini con una sapienza pittorica che si adatta alle singole storie, dal thriller claustrofobico, alla storia gotica di vampiri alla spettrale vicenda di un redde rationem dopo la morte. Con un’ottima sceneggiatura alla quale collabora Alberto Bevilacqua, Bava riesce anche a esprimere momenti di geniale ironia metacinematografica svelando il trucco che c’è dietro l’immagine irreale e tempestosa, in una chiusa rimasta nella storia. Boris Karloff aggiunge un tocco di classe ulteriore interpretando con sobria minacciosità il ruolo del capofamiglia che torna là dove non dovrebbe. Grande atmosfera, grande senso del cinema. Il racconto di Aleksej Tolstoj alla base dell’episodio con Karloff sarebbe stato lo spunto per La notte dei diavoli di Ferroni. Per l’edizione americana, l’AIP, come testimoniato dal super bavologo Tim Lucas in un lunghissimo articolo su Video Watchdog, alterò per motivi commerciali l’ordine degli episodi in questa successione: La goccia d’acqua, Il telefono, I Wurdalak

THE SHINING di Stanley Kubrick (1980)

18 Mag

Rudy Salvagnini: Jack, uno scrittore frustrato, assume l’incarico di guardiano di un hotel chiuso per la stagione invernale in una località isolata sui monti e vi si reca accompagnato dalla moglie Wendy e dal figlioletto Danny. Prescindendo dalla meccanica di una trama prettamente di genere, Stanley Kubrick costruisce con genialità un film singolare e affascinante, pieno di innovazioni tecniche e di immagini memorabili. Il peso della frustrazione che fa impazzire Jack si inserisce e si fonde nelle suggestioni della memoria e nel fascino del passato che, all’Overlook Hotel, acquista una fisicità propria. Lucido e geometrico, non è un film di facili emozioni ed è certamente carente sotto il profilo della suspense, però resta, come quasi tutti quelli di Kubrick, un’esperienza indimenticabile. Jack Nicholson fornisce un ritratto sfaccettato, anche se “esagerato” in un’interpretazione che ha fatto scuola. Stephen King non fu soddisfatto del tradimento del romanzo operato da Kubrick e lo disse pubblicamente, tanto da occuparsi personalmente della sceneggiatura del remake televisivo di Mick Garris (1997).

Morandini: Dal romanzo di Stephen King: sotto l’influenza malefica dell’Overlook Hotel sulle Montagne Rocciose dove s’è installato come guardiano d’inverno con moglie e figlio, Jack Torrence sprofonda in una progressiva schizofrenica follia che lo spinge a minacciare di morte i suoi cari. Più che un film dell’orrore e del terrore, è un thriller fantastico di parapsicologia che precisa, dopo 2001: odissea nello spazio e Arancia meccanica, la filosofia di Kubrick. L’aneddotica di Stephen King diventa fiaba e rilettura di un mito, di molti miti, da quello di Saturno a quello di Teseo e del Minotauro, per non parlare del tema dell’Edipo. Il prodigioso brio tecnico-espressivo è al servizio di un discorso sul mondo, sulla società e sulla storia. Totalmente pessimista, Kubrick nega e fugge la storia, ma affronta l’utopia riaffermando che le radici del male sono nell’uomo, animale sociale, ma non negando, anzi esaltando, la possibilità di una riconciliazione futura, attraverso il bambino e il suo shining (luccicanza) e quella di una nuova e diversa concordia. Abbreviato di 4 minuti dallo stesso Kubrick. La durata di 120 minuti è quella di un’edizione italiana non approvata dal regista-produttore. Ottimo doppiaggio di Giancarlo Giannini per Nicholson.

Film TV: Jack Torrance, per trovare il giusto isolamento che gli permetterà di scrivere il suo romanzo, accetta l’incarico di custode invernale di un enorme albergo tra le montagne. Lo seguono la moglie e il figlioletto Danny. Quest’ultimo possiede poteri paranormali che gli permettono di vedere nel passato e nel futuro. In questo film cupo, claustrofobico, Kubrick prende di petto il genere horror (tratto da un romanzo di Stephen King), per piegarlo al proprio genio. Film fatto di segnali ambigui, dove l’orrore è tanto più profondo quanto meno interpretabile (realtà, allucinazione?), “Shining” si muove tra favola e racconto gotico, con momenti memorabili: le chiacchierate tra Torrance e il fantasma del barista, Danny che si aggira nei corridoi sulla sua biciclettina e l’inseguimento finale nel labirinto innevato.

THE VILLAGE di M Night Shyamalan (2004)

8 Mar

Rudy Salvagnini: L’assunto è come un teorema che arriva a una conclusione scontata e per alcuni condivisibile (è il teorema, in fondo, che rende giustificabili le religioni come male minore per un’umanità incapace di reggersi da sola), ma poco originale. Shyamalan cerca sempre l’horror spirituale, ma sembra aver perso la lucidità (o l’ispirazione) che aveva reso ottimo The Sixth Sense – Il sesto senso. Resta un cupo senso di minaccia, di suspense ottenuta con minimi mezzi scenici, sufficiente a rendere riconoscibile la cifra di Shyamalan, ma non salva il film da una sensazione di incompiutezza e risaputezza. Shyamalan ottiene però delle ottime interpretazioni da un cast interessante nel quale spicca la fragile, ma risoluta, Bryce Dallas Howard.

Film TV:  La comunità di Covington, in Pennsylvania, vive isolata dal resto del mondo sotto la guida degli anziani e circondata da un bosco popolato da misteriose creature. Lavorando con lentezza nella messa in scena, ispirandosi a livello di immaginario al gotico americano, a Cime tempestose e alle fiabe dei fratelli Grimm, il regista di origine indiana racconta un’America oscura, ferita e assoggettata. Soprattutto per colpa di se stessa. La Howard è figlia d’arte di immacolata bellezza.

Morandini: In una comunità rurale, sita in una fertile valle interamente circondata da boschi, il tempo si è fermato alla fine dell’Ottocento. Non più di un centinaio di abitanti vivono dei prodotti agricoli, governati da un consiglio di anziani, in una sorta di serenità idillica su cui, però, pesa la paura, la minaccia di misteriosi esseri malefici, creature innominabili annidate nei boschi, tenute a bada con offerte sacrificali e fuochi accesi nella notte.  Il sesto lungometraggio di Shyamalan è una fiaba per adulti in cui realistico e fantastico (passato e presente) sono inseparabili, che si presta a essere interpretato come una allegoria degli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001. È un film sulla paura più che di paura: quella che gli anziani (le autorità) instillano nei cittadini. Il che non significa che sia soltanto una storia politica travestita da film fantastico. La paura è una componente stabile del cinema di questo giovane cineasta di origine indiana. In quella che è probabilmente la sua opera più riuscita, sicuramente la più complessa come visione del mondo e della vita, sono percepibili angosce primitive e aspirazioni universali. Fotografia: Roger Deakins. Musiche: James Newton Howard.

DER GOLEM, WIE ER IN DIE WELT KAM di Paul Wegener (1920)

2 Gen

Rudy Salvagnini: Nella Praga del XVI secolo, il rabbino Rabbi Loew (Albert Steinrück) capisce, dallo studio degli astri, che una minaccia incombe sul popolo ebreo. Decide perciò che è il tempo di costruire il Golem, un gigante d’argilla che servirà fedelmente il suo creatore. Capolavoro dell’espressionismo e del cinema muto, ha creato la versione definitiva di un’icona del cinema horror, anche se Paul Wegener era già stato il Golem in un film del 1914. Il personaggio del Golem, fortemente radicato nella tradizione ebraica, ha fornito indubbiamente un importante precedente per la rappresentazione figurativa del mostro di Frankenstein e di altri mostri simili. Geniale e affascinante è la rappresentazione scenografica del ghetto di Praga, con immagini che sono rimaste nella storia del cinema. Un film importante e non solo dal punto di vista storico.

dal DVD edito da Ermitage Cinema: La storia è ambientata nel XVI secolo ai tempi di Rodolfo d’Asburgo, che per la leggenda aveva accolto a corte il rabbino Loew, il quale gli aveva mostrato il Golem e le sue straordinarie capacità. Il termine trae origine dall’ebreo “gelem”, che significa materia grezza o embrione e fa la sua prima apparizione nella Bibbia. Il golem può essere considerato il primo automa nella storia dell’umanità. Il mito della vita artificiale infatti, si rifà all’antica aspirazione umana di superare le leggi che regolano l’universo e la creazione della vita.

Morandini: La storia è ispirata ad antiche leggende giudeo-cabalistiche che simboleggiano la creazione dell’uomo che vuole imitare Dio, creando un essere a propria immagine. Sceneggiato dal regista, che v’interpreta il ruolo del Golem, con Henrik Galeen, rimane il miglior film sull’argomento per un concorso di fattori espressivi e tecnici: le originali scenografie di Hans Pölzig, la fotografia di Karl Freund, la potenza dinamica delle scene di massa, l’efficacia dei trucchi, la forza suggestiva del Golem stesso che influenzò non poco James Whale nel suo Frankenstein del 1931.

FantaFilm: Celebre trasposizione della leggenda del Golem filtrata, in questo caso, attraverso il romanzo di Gustav Meyrink. Romanticismo ed espressionismo si fondono in maniera ammirevole in una cupa raffigurazione del destino dell’umanità, da un lato testimoniando la fertile vena creativa dei cineasti tedeschi degli anni ’20 e, dall’altro, creando presupposti e situazioni per l’adattamento cinematografico di Frankenstein del 1931. Gran parte della suggestione del film riposa sulla fotografia di Karl Freund, sulle luci di Kurt Richter e sulle scenografie di Hans Poelzig che si risolvono nelle svettanti architetture gotiche, nelle viuzze che squarciano il soffocante groviglio di case del Ghetto, nei vertiginosi giri delle scale, nelle nervature dei sotterranei, nel livore spiritato dei volti. Un film che parla del mistero della vita, nel quale l’uomo scopre che il suo involucro terreno è in tutto simile alla tragica plasticità del Golem o alla rigida maschera del demonio Astarotte: una forma vuota fatta per ospitare effimere passioni. Paul Wegener (il Golem) e sua moglie Lyda Salmonova (Miriam) avevano già lavorato ai precedenti Der Golem del 1914 e Der Golem und die Tänzerin del 1917.

WACHSFIGURENKABINETT di Paul Leni (1923)

1 Gen

dal DVD edito da Ermitage Cinema: Un giovane poeta viene ingaggiato dal proprietario di un museo delle cere per animare attraverso tre storie altrettante statue esposte nel museo: Ivan il Terribile, Jack lo Squartatore e il califfo di Bagdad Harun Al-Rashid. Il film, che presenta molti collegamenti con Il gabinetto del dottor Caligari di Wiene e Destino di Lang, nonostante l’incompletezza (un quarto episodio mai girato per problemi economici) si erge come uno spettacolare kolossal, capace di esaltare le forme dell’espressionismo e di sfruttare a pieno le grandi doti degli interpreti, da Emil Jennings a Conrad Veidt a Werner Krauss.

Rudy Salvagnini: Curioso esempio ante litteram di film a episodi, mescola elementi chiaramente horror ad altri parodistici o comunque umoristici, in un’alternanza che sarebbe divenuta tipica degli horror a episodi. Paul Leni, grande regista del muto, utilizza liberamente gli stilemi espressionistici mutando ambienti e “umore”, con grande libertà stilistica e figurativa. Un capolavoro un po’ dimenticato, ma da recuperare.

George Sadoul: Questa specie di canto del cigno dell’espressionismo è pesantemente dominato da una scenografia deformata, barocca e bizzarra. La sequenza migliore è quella di Jack lo squartatore, dal montaggio violento ed efficace. In mezzo a questi orrori, l’episodio delle Mille e una notte porta una nota di gaiezza, benché con punte un po’ pesanti. Grande scenografo, Leni ha trattato i tre episodi in toni diversi: decorativo, iconografico, onirico, dando con questo film uno dei capolavori del fantastico, in cui “gli effetti di luce e i movimenti di camera accrescono il clima allucinante dell’insieme” (Mitry). (da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968)

ROSEMARY’S BABY di Roman Polanski (1968)

18 Dic

Film TV: Guy è un attore teatrale, sua moglie si chiama Rosemary ed è in attesa di un bambino. I vicini, i Castevet, sono cordialissimi, per quanto un po’ invadenti. E Rosemary è un tantino apprensiva e paranoica, anche se bisogna capirla se nel suo stato si mette in po’ in ansia. Forse il film fondativo dell’horror moderno e forse il capolavoro di Polanski. La tensione (insostenibile) è creata a partire da un minuzioso realismo, e una New York luminosa e affollata diventa il luogo del terrore per eccellenza, della convivenza di paure ancestrali e fobie metropolitane. Sconvolgente il finale quasi “minimalista”.

Mereghetti: Il film dell’orrore dell’era Watergate, tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin che Polanski sceneggia con fedeltà e mette in scena con sobrietà, rinunciando del tutto agli effetti speciali consueti per il genere. L’unico film in grado di reiterpretare la lezione hitchcockiana in chiave personale e in rapporto al clima della società. Su un realismo descrittivo di fondo, Polanski innesta progressivamente un’angoscia surreale, tanto fantastica quanto inquietante, resa intensa dall’umorismo beffardo, dalle acute osservazioni psicologiche e da un senso di ambiguità diffusa e persistente. Passata alla storia del cinema horror la scena dell’evocazione del diavolo per l’accoppiamento infernale.

Morandini: Realtà o psicosi? Il polacco Roman Polanski, al suo primo film made in USA dopo tre britannici, affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell’ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È “un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante” (S. Rulli).

Rudy Salvagnini: Capolavoro di sottile ambiguità e caposaldo del filone demoniaco e paranoico, riesce a evitare schematismi e trappole etico-religiose grazie a una sapiente autoironia che non diminuisce mai l’efficacia del racconto. La demonizzazione dei vicini di casa, sorridenti e appiccicosi, è una delle cose più riuscite, assieme alla demonizzazione della famiglia e dell’amore coniugale. Tutta la città diventa un unico luogo di perversione, senza alcuna possibilità di scampo. Il film riesce a comunicare una ficcante sensazione di solitudine e di oppressione, mettendo a contatto l’ancestrale paura del diavolo con il traffico indifferente di Manhattan. Guida per molti autori successivi, ha lanciato definitivamente, anche dal punto di vista commerciale, Polanski. Ha inoltre segnato la carriera della fragile Mia Farrow e rilanciato come caratterista la vispa Ruth Gordon, vincitrice con questo film di un Oscar come miglior attrice non protagonista. Un mustassoluto, anche per le cupe ed efficacissime atmosfere create dall’ottimo William A. Fraker. Prodotto da William Castle. Esiste un seguito televisivo inedito da noi: Look What’s Happened to Rosemary’s Baby, diretto nel ’76 da Sam O’Steen

NOSFERATU, EINE SYMPHONIE DES GRAUENS di Friedrich Wilhelm Murnau (1922)

10 Dic

Rudy Salvagnini: Uno dei grandi classici dell’orrore del periodo muto che ha stabilito molti parametri per i film di vampiri che sarebbero seguiti, dato che il trend caratteriale per il vampiro sarebbe stato rappresentato dall’aristocratico minaccioso e sinistro interpretato da Bela Lugosi, ben distante dal mostro ripugnante e decrepitamente malsano che qui Max Schreck rende benissimo. Murnau riprende la storia e i personaggi dal Dracula di Bram Stoker, ma avendolo fatto senza averne pagati i diritti, è vittima di una causa intentata da Florence Stoker, vedova di Bram, con la conseguenza che nel 1925 un tribunale tedesco ordina che il film venga distrutto. Fortunatamente, qualche copia sopravvive al massacro e così Nosferatu è arrivato avventurosamente sino a noi. Girato in ambienti naturali con grande sfoggio di bravura visuale da parte di un maestro come Murnau, è uno dei capolavori indiscussi dell’espressionismo, e non solo.

Morandini: Scritto da Henrick Galeen che s’ispirò liberamente al romanzo Dracula (1897) di Bram Stoker, cambiando nomi e posti per non pagare i diritti d’autore: dal suo castello nei Carpazi il vampirico conte Orlok, chiuso nel suo sarcofago, si fa trasportare nel 1838 a bordo di una nave al porto di Brema dove si diffonde la peste. È il più grande film vampiresco di tutti i tempi. Senza ricorrere alla manipolazione dello spazio, tipica dell’espressionismo, Murnau sceglie la concretezza e il rischio degli scenari naturali, ricorrendo a mezzi più specificamente cinematografici (angolazioni, montaggio, immagini in negativo, ecc.) e a una fitta rete di richiami metaforici e simbolici. Nella sua complessità si presta a diverse letture in chiave psico-sociologica, metafisico-esistenziale, romantico-dostoevskiana, psicoanalitica.

Film TV: Hulter, commesso di un’agenzia immobiliare, viene inviato presso il conte Orlock, detto anche Nosferatu, in Transilvania. Questi abbandona il suo castello in una bara, a bordo di una nave carica di topi portatori di peste, e giunge nella città dove abita la fidanzata di Hulter, che intende sedurre. L’atmosfera d’orrore è costruita attraverso la lentezza dei gesti e con il continuo variare della luce sugli oggetti. Straordinaria la nera presenza del protagonista, Max Schreck, da questo film consegnato per sempre alla leggenda.

Mereghetti: Murnau costruisce, come dice il titolo, una sinfonia in grigio, inquietante ritratto di una città che, insieme ai suoi abitanti, si accascia e si ripiega su se stessa, impotente di fronte all’avanzare del Male e del suo rappresentante. Girato quasi tutto in luoghi reali, il film supera le convenzioni dell’espressionismo per diventare una delle più alte rappresentazioni dell’istinto di morte che si nasconde nell’uomo civilizzato. Tutt’ora insuperato nella capacità di descrivere il progressivo ottenebramento delle forze vitali, il film utilizza tutte le possibilità espressive del cinema per sollevarsi oltre i limiti del realismo e trasformarsi in una riflessione metafisica sul Male e sul Nulla: utilizzando pellicola negativa, trasforma i boschi dei Carpazi in un intrico di bianchi alberi spettrali contro un cielo nero; girando fotogramma per fotogramma snatura l’effetto del movimento; modificando i procedimenti di stampa ottiene che la nave con Nosferatu assomigli a uno spettro che naviga su acque fosforescenti.