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5×2, CINQ FOIS DEUX di Francois Ozon (2004)

24 Mag

Film TV: Il titolo non dice, ma lo si capisce in fretta, che la storia sarà raccontata all’incontrario, partendo dal fondo e risalendo all’indietro (come già la Campion nel suo Le due amiche, o come in teatro e poi al cinema il Pinter di  Tradimenti). Divorzio, nascita del bambino, matrimonio, innamoramento e amore. Tutto sembrava bene quel che è finito male. La risalita verso la fonte di un (dis)amore venato di masochismo è inframmezzata da una bella scelta di canzoni italiane degli anni ’60 che sono la cosa migliore del film, da Bobby Solo, (Una lacrima sul viso), a Luigi Tenco, (Mi sono innamorato di te), a Nico Fidenco, (Se mi perderai), con l’aggiunta di Paolo Conte. Valeria Bruni Tedeschi recita in un ruolo, autopunitivo, che le sta a pennello.

Morandini: In 5 capitoli a ritroso storia di una coppia francese dal divorzio al primo incontro sotto il sole di Sicilia. In concorso a Venezia 2004, ha diviso la critica. Cinema europeo d’autore? Sicuramente, ma di autore mediocre, attento al cinema più che alla vita, per il quale il suo film comincia come Bergman e finisce come Lelouch. Il suo doppio progetto era “di girare un film gay d’amore eterosessuale e un film sperimentale ad esito borghese” (Roy Menarini). Risulta, però, che i due protagonisti sono insignificanti nella loro vacuità amorale e non si sa perché abbiano potuto innamorarsi tanto sono diversi. Snobistico esercizietto di stile, spacciato per frutto trasgressivo.

THE VILLAGE di M Night Shyamalan (2004)

8 Mar

Rudy Salvagnini: L’assunto è come un teorema che arriva a una conclusione scontata e per alcuni condivisibile (è il teorema, in fondo, che rende giustificabili le religioni come male minore per un’umanità incapace di reggersi da sola), ma poco originale. Shyamalan cerca sempre l’horror spirituale, ma sembra aver perso la lucidità (o l’ispirazione) che aveva reso ottimo The Sixth Sense – Il sesto senso. Resta un cupo senso di minaccia, di suspense ottenuta con minimi mezzi scenici, sufficiente a rendere riconoscibile la cifra di Shyamalan, ma non salva il film da una sensazione di incompiutezza e risaputezza. Shyamalan ottiene però delle ottime interpretazioni da un cast interessante nel quale spicca la fragile, ma risoluta, Bryce Dallas Howard.

Film TV:  La comunità di Covington, in Pennsylvania, vive isolata dal resto del mondo sotto la guida degli anziani e circondata da un bosco popolato da misteriose creature. Lavorando con lentezza nella messa in scena, ispirandosi a livello di immaginario al gotico americano, a Cime tempestose e alle fiabe dei fratelli Grimm, il regista di origine indiana racconta un’America oscura, ferita e assoggettata. Soprattutto per colpa di se stessa. La Howard è figlia d’arte di immacolata bellezza.

Morandini: In una comunità rurale, sita in una fertile valle interamente circondata da boschi, il tempo si è fermato alla fine dell’Ottocento. Non più di un centinaio di abitanti vivono dei prodotti agricoli, governati da un consiglio di anziani, in una sorta di serenità idillica su cui, però, pesa la paura, la minaccia di misteriosi esseri malefici, creature innominabili annidate nei boschi, tenute a bada con offerte sacrificali e fuochi accesi nella notte.  Il sesto lungometraggio di Shyamalan è una fiaba per adulti in cui realistico e fantastico (passato e presente) sono inseparabili, che si presta a essere interpretato come una allegoria degli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001. È un film sulla paura più che di paura: quella che gli anziani (le autorità) instillano nei cittadini. Il che non significa che sia soltanto una storia politica travestita da film fantastico. La paura è una componente stabile del cinema di questo giovane cineasta di origine indiana. In quella che è probabilmente la sua opera più riuscita, sicuramente la più complessa come visione del mondo e della vita, sono percepibili angosce primitive e aspirazioni universali. Fotografia: Roger Deakins. Musiche: James Newton Howard.

SCRIVERE NEW YORK di Giorgio Carella (2004)

16 Feb

Paolo Cognetti: In questi anni è capitato più volte che qualcuno mi chiedesse: dove posso trovare la serie Scrivere New York? Con quei nove documentari, girati nel 2004 insieme a Giorgio Carella e Marco Cassini, il sogno è sempre stato quello di realizzare un cofanetto, magari accompagnato da un libro: ma il sogno era piuttosto costoso e dall’incerto futuro commerciale, e non se n’è fatto mai niente. Così Giorgio e io, e forse anche qualcuno a minimum fax, abbiamo passato molto tempo a fare copie per gli amici, dicendo che la serie era ormai introvabile e godendo in segreto di questa condizione, che ci permetteva di passare i nostri film sottobanco, copie pirata, come certi lavori di culto degli anni Settanta.


Alcune puntate della serie sono andate in programmazione su Raitre, all’interno di Fuori Orario. Rick Moody, Nathan Englander e Jonathan Lethem. Insomma: da una condizione di culto all’altra. Fuori Orario, ragazzi. Io sono un po’ commosso all’idea che siano passati sette anni. Tutta la mia storia con New York è cominciata da lì, insieme a tante altre cose. Come dice quel tizio che parla fuori sincrono? Buona visione

MAR ADENTRO di Alejandro Amenábar (2004)

15 Feb

Morandini: Storia vera. A Xuño (Coruña), Ramón Sampedro, meccanico di navi galiziano, vive da quasi trent’anni da tetraplegico, assistito dai familiari: può muovere soltanto la testa. Quarto lungometraggio, del giovane Amenábar, non è un film a tesi: si muove “al confine terribile lungo il quale si scontrano la dignità e la libertà dell’io e il potere e la potenza del noi” (Roberto Escobar), cioè delle istituzioni spirituali, religiose o politiche. Non a caso a Ramón si contrappone il caso dell’avvocato Julia (l’unico personaggio di pura invenzione) che sceglie di vivere, pur sapendo che la aspetta un’immobilità e un’impotenza ancora peggiori di quelle dell’uomo che ama. Scritto dal regista-produttore con Mateo Gil, il film lascia in secondo piano la componente sociale (e polemica) della storia per scavare nell’interiorità del protagonista, nell’ambiente familiare e nel paesaggio costiero della Galizia. Esemplare è il dialogo a distanza tra Ramón e il gesuita Francisco in carrozzella, degno di Buñuel. Amenábar talvolta abusa nell’enfasi delle musiche (da lui firmate) e nel lirismo hollywoodiano delle carrellate aeree.

Film TV: Come si fosse messo dentro la testa e il cuore del protagonista (immobile, necessariamente sulla difensiva, protetto dall’autoironia), Amenábar raffredda l’emotività (che avrebbe potuto essere esplosiva), aiutato in questo dalla recitazione millimetrica di Javier Bardem.

UN CARTUS DE KENT SI UN PACHET DE CAFEA di Cristi Puiu (2004)

4 Feb

Alessandro Cavazza: Un padre e un figlio seduti al tavolo di un bar, parlano senza capirsi: troppo grande è il gap culturale e sociale che separa le due generazioni. Esplidito omaggio a Jim Jarmusch, di cui riprende lo schema. Orso d’Oro alla Berlinale per il miglior corto.

LA MALA EDUCACIÓN di Pedro Almodovar (2004)

6 Nov

Morandini: Più melodramma di così si muore sebbene Almodóvar lo definisca un noir. Non gli bastano un protagonista come Juan con doppia identità e quadrupla personalità e un racconto a scatole cinesi con un flashback dentro l’altro: lo complica con il film nel film in un giuoco di specchi. Sembra un’esagerazione, da cattolico spagnolo, sostenere che “porta in sé l’immensa metafora del mistero del male, l’enigma della perversità, l’inferno come dimora naturale di questo mondo” (A. Fernández-Santos, El Pais). Buñuel è lontano, “scintille remote di un cinema che non c’è più” (F. De Bernardinis).

Film TV: Un romanzo di iniziazione e d’amore che non è giusto ridurre a una storia di sacerdoti pedofili. Tutto ruota intorno a un “homme fatale” che si maschera come le creature torbide, trepide e folli, incatenate tra le maledizioni del noir e l’infelicità perfetta del melodramma.

THE AVIATOR di Martin Scorsese (2004)

5 Nov

Morandini: Frammenti di un ventennio di vita di Howard Hughes (1905-76), erede di una famiglia di petrolieri, produttore a Hollywood e regista (2 film), aviatore, ideatore di aerei di avanguardia, proprietario della compagnia aerea TWA: tormentata lavorazione di Gli angeli dell’inferno (1927-30); amori con attrici (Jean Harlow, Katharine Hepburn, Ava Gardner, ecc.); scontri con la censura per Il mio corpo ti scalderà (1943); inchiesta parlamentare sui finanziamenti pubblici durante la guerra; accuse di corruzione; morte sfiorata in un incidente aereo nel ’46; l’affiorare delle crisi paranoiche e fobiche; l’autodifesa vincente nell’udienza del ’47. “C’è troppo Howard Hughes in Howard Hughes”, dice K. Hepburn e, senza volerlo, denuncia i limiti e gli eccessi del film. Il personaggio è sicuramente nelle corde di M. Scorsese e della sua poetica. Da faccia d’angelo a maschera del dolore, DiCaprio vi fa l’interpretazione della sua carriera. Ma non basta a farne un film riuscito: il suo punto debole è la sceneggiatura di John Logan (The Gladiator). Di questo personaggio misogino, visionario, autodistruttivo e paranoide le componenti principali sono il volo, il cinema, il denaro e le donne. D’accordo: è un’altra storia del sogno americano trasformata in incubo. Manca, però, un vero rapporto drammatico tra il piano pubblico e quello privato: gli aspetti più negativi di Hughes sono omessi o sorvolati. Le sequenze memorabili non mancano, ma nemmeno Scorsese riesce a ridare nuova vita a icone celebri come i divi degli anni ’30, riducendoli, tolta la Hepburn di C. Blanchett, a caricature, statuine o comparse.

Giancarlo Zappoli: Signore e signori Howard Hughes: produttore, appassionato di aviazione, affetto da disordine ossessivo-compulsivo. Sono queste tre caratteristiche che debbono avere stimolato Martin Scorsese ad affrontare il primo film biografico della sua carriera, inteso in senso classico e quindi escludendo Toro scatenato. Nell’ostinato giovane produttore di film che hanno fatto la storia del cinema come Angeli dell’inferno e Scarface, nell’esperto aeronautico capace di prevedere e di rischiare sul futuro dell’aviazione civile ha visto uno di quei personaggi capaci di ‘sporcarsi le mani’ per il raggiungimento di un obiettivo. Un ‘bravo ragazzo’ avido di potere e al contempo dotato di qualità, un ‘toro scatenato’ pronto a cadere ma anche a risorgere (come gli accadrà di fronte alla commissione senatoriale che lo accusa di corruzione e contro la quale ribalterà l’accusa). Ma è certo nell’ultima caratteristica del personaggio che Scorsese ha trovato il proprio fulcro. Non a caso la prima immagine che vediamo è quella di un preadolescente nudo che viene lavato accuratamente dalla madre con un sapone nero per preservarlo dalle malattie. Le ‘madri’ mafiose che preparano la salsa di pomodoro vengono sostituite da questa giovane donna che lascerà un segno indelebile in un figlio che si ritroverà, adulto, nuovamente nudo a combattere con le ossessioni che sono entrate nella sua pelle con la schiuma di quel sapone da cui non saprà mai separarsi. Ma queste ossessioni si accompagnano con forza visiva straordinaria ad altre. Una per tutte: il frantumarsi delle lampade incandescenti dei flash dei fotografi in una sequenza degna di Welles. Il tutto (ma c’è molto di più grazie anche al cast che vede svettare tra i coprotagonisti Cate Blanchett in un ruolo difficile come quello di restituirci senza limitarsi ad imitarla una donna del calibro di Katharine Hepburn) ripreso con un lavoro sui colori che ci offre una visione come quella che il pubblico degli anni 30/40 aveva del cinema. Per concludere non si può non dire di Leonardo DiCaprio. Superato il rischio di non poter più fare cinema perché incatenato ai ruoli alla Titanic o alla Romeo l’attore torna a farsi dirigere da Scorsese al quale offre in guizzi improvvisi il trascorrere dello sguardo dalla più docile seduttività al lampo di follia sofferente. Grazie a lui Scorsese ha potuto tornare a far visita al Travis di Taxi Driver. Ma questa volta è ai comandi di un aereo che non riesce a staccarlo dal terreno del suo mal di vivere. La rivisitazione del ‘sogno americano’ ha un nuovo capitolo.

Film TV: Un atto d’amore di strabiliante perizia tecnica; talmente tanta che il gelo della ricostruzione filologica spegne le fiamme delle passioni. A differenza di qualsiasi altro film di Scorsese, non ha cuore, non ha dolore. Ma l’energia nervosa su cui si costruisce non riecheggia nella pancia e nell’anima.

Fabio Ferzetti: Gli piacevano il volo, il cinema e le donne, non necessariamente in quest’ordine. Amava le imprese impossibili, le sfide alle convenzioni, la ricerca di tutto ciò che era nuovo e pericoloso. Ma il volo era il piacere perfetto, quello che riassumeva tutti gli altri. Perfetto e solitario. Piacere alle donne non era un problema. Alto un metro e 93, ricchissimo, atletico, Howard Hughes era abbastanza stravagante e ostinato per sedurre chiunque, anche se mai troppo a lungo. Ma negli aerei non era secondo a nessuno. Grande pilota e progettista di velivoli rivoluzionari, fondò compagnie aeree, comprò la Twa, stabilì diversi record in campo aeronautico e soprattutto costruì e pilotò due apparecchi destinati a fare epoca. Il primo per la velocità inaudita (come disse il grande regista Howard Hawks, che se ne intendeva: «Niente era omologato in quell’apparecchio. Nessun altro avrebbe saputo cosa diavolo fare»). Il secondo perché era lungo quanto un campo da foootball ma volò per un miglio appena, naturalmente pilotato da Hughes. Poi tornò al suolo per restarci ed essere beffardamente ricordato come “The Spruce Goose”, l’oca di legno.
Ricostruito in grandezza naturale dallo scenografo Dante Ferretti, l’HK-1, alias Spruce Goose , troneggia nel film di Scorsese sul giovane Hug hes, The Aviator. Ma se guardiamo all’erratica e scintillante carriera cinematografica del pilota-regista-produttore, sono altri i voli che gli avrebbero spalancato le porte di Hollywood. E pensiamo naturalmente a Hell’s Angels , Gli angeli dell’inferno, leggendario film d’aviazione a sua volta celebrato da Scorsese. Messo in cantiere nel 1927, quando Hughes non aveva ancora 23 anni, Hell’s Angels fu una delle imprese più folli che il cinema ricordi. A immagine e misura del suo regista e produttore. Dopo quasi quattro anni di riprese infatti era arrivato il sonoro e Hughes dovette cercare un’americana per sostituire la protagonista Greta Nissen, dal pesante accento svedese. Trovò un’oscura ma provocante biondina di nome Jean Harlow.
Il resto, come si dice, è storia. La Harlow era così esplosiva che per lei fu coniata l’espressione “sex-appeal”. Le scene aeree magnifiche e così realistiche da costare la vita a quattro stuntmen, anche se Hughes le girò in prima persona. Così come fu sempre lui a sborsare i quattro milioni di dollari necessari a ultimare l’impresa (all’epoca un film costava circa 75.000 dollari). Nel frattempo Hughes mise in cantiere un altro film epocale, il magnifico e violentissimo Scarface , ispirato ad Al Capone. E ci volle tutto il suo peso e la sua astuzia per sostenere una lunga battaglia contro la censura. Ma stavolta il regista era un altro Howard, Howard Hawks. Prima boicottato. Poi assunto. Nasceva lo Hughes seconda maniera.

PRIMO AMORE di Matteo Garrone (2004)

25 Set

Morandini: Garrone conferma il suo statuto di autore, rivelato con L’imbalsamatore di cui continua il discorso (lo squallore della provincia italiana profonda) e lo stile alto, prezioso e “firmato” persino con civetteria, ma non formalistico: fa da motore al racconto. Ma i conti non tornano bene come prima. Pone domande e non dà risposte sulla patologia dei due personaggi (attiva in lui, passiva in lei), ma nemmeno spiegazioni. Rimane lo sguardo lucido e impietoso del regista soprattutto nella insistita nudità di Sonia che è negazione radicale del desiderio. Rimane l’impossibilità di separare gli interpreti dai personaggi in Michela Cescon, attrice di teatro per la prima volta davanti all’obiettivo, e in Vitaliano Trevisan che attore non è.


Film TV: Viaggio allucinante nelle pieghe di un rapporto malato, nell’ambiguità di una passione, nel mistero di una simbiosi, nelle contorsioni di due psicologie che non si arrendono alla normalità. Più cerebrale de L’imbalsamatore, ma pur sempre denso, doloroso e necessario. La Cescon è dimagrita 15 chili durante le riprese, il protagonista Vitaliano Trevisan è una presenza che incide e non si dimentica.

PROMISED LAND di Amos Gitai (2004)

19 Set

Morandini: (…) da sempre a scandagliare le gravi contraddizioni del suo paese sul piano storico, religioso, sociale, esistenziale, Gitai non era mai stato, forse, così duro e crudo, così violento e pessimista sul legno storto dell’umanità. Così indignato. Così scomodo. Il calvario di queste donne, ridotte a merce con la violenza, è raccontato – specialmente nell’impietosa, centrale sequenza notturna – con un’immediatezza da cinema diretto. Il linguaggio registico è gelidamente furioso: cinepresa a mano, inquadrature sbilenche, montaggio stretto, luci livide, colore compresso sullo spettro dei grigi. Scritto con Marie-José Sanselme. Anche fotografia e montaggio sono di donne: Caroline Champetier e Isabelle Ingold. Non può essere una scelta casuale. Musiche di Ärvo Part e Simon Stockhausen.

Film TV: L’assunto didascalico del film è supportato da un impatto visivo che non lascia scampo e maneggia con sorprendente riserbo una materia incandescente. La sequenza finale dell’attentato allude alla possibilità che dal caos possano nascere libertà e speranza: sarà pure sopra le righe, ma è magnifica.