Tag Archives: Giancarlo Zappoli

GOOD NIGHT and GOOD LUCK di George Clooney (2005)

14 Nov

George Clooney: “Io spero che con questo film abbiamo reso merito ai giornalisti coraggiosi. Erano dei patrioti e come tali devono essere ricordati“.

 

Giancarlo Zappoli (mymovies): Ed Murrow che nel 1953 condusse dagli studi della CBS una dura battaglia contro il senatore McCarthy propugnatore delle liste di proscrizione contro i ‘comunisti’ che causarono perdite di lavoro, incentivazioni della delazione e anche suicidi tracciando una pagina nera della storia americana. Clooney sceglie uno stile “old fashion”. Un bianco e nero lucido ci accompagna in un percorso che conta soprattutto sui volti degli attori decidendo inoltre di non far interpretare a nessuno il ruolo di McCarthy. Tutte le immagini dell’ottuso e rancoroso senatore sono affidate a materiale di repertorio. Clooney ci narra dell’ieri con davanti una chiara visione dell’oggi.

BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio (2012)

23 Ott

Aldo Fittante (Film TV): Gli ultimi giorni di Eluana Englaro (ri)vissuti da Marco Bellocchio come una Passione di Cristo dove tre storie parallele che non s’intrecciano mai ma che hanno molto in comune, rilanciano e dipanano molte questioni.
Tra Il pianto della Madonna di Jacopone da Todi e una Isabelle Huppert nei panni quasi di se stessa (ovvero Divina Madre, una ex attrice ritiratasi dalle scene per accudire la figlia in stato vegetativo) il solenne spaccato contemporaneo del grande regista, disorienta e ingarbuglia le carte (l’attrice francese compare in Tv in La storia vera della signora dalle camelie di Bolognini), sgomenta e sbalordisce una volta di più, sconvolge e complica i pensieri e le riflessioni. D’altronde è questo il compito del cinema.

Giancarlo Zappoli: Giorni di inizio febbraio 2009. Eluana Englaro, dopo 17 anni trascorsi in coma e con alimentazione artificiale, viene fatta trasportare dal padre in una struttura ospedaliera di Udine in cui operano medici disposti a interrompere il trattamento. L’avvenimento scatena in Italia la reazione di fronti opposti. C’è chi vuole impedire ad ogni costo che ciò avvenga e chi invece ritiene che sia l’attuazione di un diritto civile. Il senatore Uliano Beffardi del Popolo della Libertà viene convocato a Roma per la votazione del decreto d’urgenza in materia voluto dal governo Berlusconi per contrastare la volontà del padre della giovane donna. Se Beffardi sta maturando dei dubbi sul voto (anche in seguito a una vicenda personale), sua figlia Maria è invece determinata nel raggiungere la clinica per manifestare contro l’interruzione del trattamento.

PADRONI DI CASA di Edoardo Gabbriellini (2012)

23 Ott

Giancarlo Zappoli: Cosimo ed Elia sono due fratelli titolari di una piccola impresa edile. Giungono in un paesino dell’Appennino Tosco-Emiliano per dei lavori sulla terrazza della villa di Fausto Mieli. Edoardo Gabbriellini torna dietro la macchina da presa con una maturità indubbiamente superiore rispetto al suo film d’esordio, B.B. e il Cormorano presentato a Cannes nel 2003. Lo dimostra nella scelta del cast e nel modo in cui dirige gli attori anche se si schermisce dicendo che hanno praticamente fatto tutto loro. Non è così e si vede che si è instaurato un ottimo rapporto con tutti esplicitato dalla performance di un Morandi tornato (finalmente) al cinema in un ruolo al contempo lontano e vicino al suo vissuto. Ciò che si rivela fragile è invece la sceneggiatura che, mentre si rivela efficace nel mostrare sin dall’inizio il lato oscuro della tanto celebrata vita lontana dagli spazi urbani, ruota attorno al duplice perno delle due coppie.

Giulio Sangiorgio (Film TV): Provincia dispersa, localismo ottuso da comunità chiusa (…) I sentimenti, qui, sono prima di tutto risentimenti. E la caccia è l’unica sublimazione della violenza, fino all’arrivo di un capro espiatorio, di un interruttore che incendia. L’altro, lo straniero. La presenza di Cosimo ed Elia, titolari di una piccola impresa edile in trasferta, è un eccesso ingestibile per un territorio umano dalle faglie così instabili: il sisma è l’ovvia conseguenza, un effetto domino che porta allo sbriciolamento della quotidiana ipocrisia del paesello, lo spettacolo del quieto vivere delle famiglie. Dietro ogni uomo, c’è la possibilità di un mostro, il fascismo e il leghismo sono luoghi mentali. Gabbriellini parte da forme poco riuscite di commedia, le soffoca nell’aria viziata di un borgo che evoca l’horror da America profonda, rimanda l’esplosione sino al delirio finale, dove la crescente inverosimiglianza narrativa è il sintomo traballante e furioso della foga repressa, del lato oscuro covato dai personaggi. È un’opera caracollante, ma preziosa.

 

MIDNIGHT IN PARIS – Woody Allen (2011)

23 Ott

Mariuccia Ciotta (Film TV): Sceneggiatore di Hollywood in vacanza con fidanzata e futuri suoceri, tronfi borghesi “criptofascisti”, tutto shopping, antiquari e grand hotel, Gil fugge in un’altra dimensione. A mezzanotte, la zucca si trasforma in carrozza e lo rapisce nell’ultramondo di una Parigi mitica… Figurine incollate agli stereotipi, esilaranti e amate caricature che dicono quel che ti aspetti in un gioco di humour e malizia, «Piacere, Ernest Hemingway», ecco il macho “coraggioso” e sbeffeggiato, tra tigri impagliate e fughe africane. Il pantheon di Woody Allen è infiltrato di nostalgia e del desiderio di dare carne e sangue alle divinità, come in La rosa purpurea del Cairo, e di trasformarle in amici da bar, compagni di oggi. Cole Porter intanto suona Let’s Do It. Woody Allen rievoca la Parigi di Minnelli (Brama di vivere) e di Huston (Moulin Rouge) e come sempre è preso dalla frenesia di ritrovare la sua age d’or, nascosta tra gli scaffali della libreria Shakespeare & Company sulla rive gauche o nei giardini di Versailles.

Giancarlo Zappoli: Gil (sceneggiatore hollywoodiano con aspirazioni da scrittore) e la sua futura sposa Inez sono in vacanza a Parigi con i piuttosto invadenti genitori di lei. Woody Allen ama Parigi sin dai tempi di Hello Pussycat e ce lo aveva ricordato anche con Tutti dicono I Love You. Nella sequenza di apertura fa alla città una dichiarazione d’amore visiva che ricorda l’ouverture di Manhattan senza parole. Ma anche qui c’è uno sceneggiatore/aspirante scrittore in agguato pronto a riempire lo schermo con il suo male di vivere ben celato dietro lo sguardo a tratti vitreo di Owen Wilson.

 

ANOTHER YEAR di Mike Leigh (2010)

1 Set

Giancarlo Zappoli: o scorrere delle stagioni di un anno accompagna la vita di un gruppo di personaggi. Gerri, psicologa e Tom, geologo, sono sposati da decenni e hanno un figlio avvocato. Gerri e Tom ospitano spesso Mary, segretaria nella clinica in cui lavora Gerri.
Mike Leigh, dopo la variazione sul tema di Happy Go Lucky torna ai suoi soggetti preferiti: le persone (non i personaggi si badi bene) colte nel loro quotidiano con i piccoli/grandi problemi del vivere e con le piccole/grandi  gioie (i pomodori coltivati nell’orto fuori città). Leigh è innanzitutto un grande sceneggiatore. Non c’è uno dei suoi caratteri che pronunci frasi che suonino false ma quello che soprattutto resta intatto nel suo fare cinema è la pietas nei confronti delle persone che ritrae in frammenti di vita in cui ci si può in tutto o in parte riconoscere anche se si vive a latitudini diverse. Sia chiaro che non si tratta di ‘pietismo’. I suoi protagonisti non si piangono addosso. Vivono  le loro contraddizioni, ne soffrono, Leigh ci mostra le loro lacrime ma anche i loro sorrisi senza pretendere nè di fare della facile psicologia nè, in questo caso, di analizzare uno spaccato sociale particolarmente definito.

Film TV: Another Year si snoda tra quattro weekend di altrettante stagioni, passando da barbeque in giardino a lavori nell’orto e chiacchiere in cucina. Il regista di Segreti e bugie vuole distillare il senso della vita che fugge, cerca l’ordinario e lo straordinario di ogni accidentato percorso individuale. Ha dalla sua un cast di facce imperfette, che testimoniano la non omologazione del progetto. E interpreti meravigliosi, capaci di padroneggiare lunghissimi dialoghi, prosaici ma mai per caso: capita che la cilindrata di un’auto sveli un personaggio più di dieci pagine di voice over. Da sempre Mike Leigh procura salutari antidoti all’alienazione da cinema di mero styling. Quello che vorrebbe anestetizzare la vergogna di provare sentimenti universali come solitudine, desiderio di calore e condivisione, gelosia, paura di invecchiare (il più giovane del cast ha 30 anni). È cinema della cura, in senso produttivo (il film come architettura di una “famiglia” di collaboratori fissi) e “filantropico”: anche la locandina originale, dove è raffigurato un solido albero, torna sull’idea che la vita sia un insieme di relazioni e un’occupazione che richiede tempo.

WALTZ WITH BASHIR di Ari Folman

23 Giu

Un’animazione scarna, ma efficace di Giancarlo Zappoli

: se non hai visto il film, ti consiglio di rimandare la lettura a dopo la visione

Una notte, in un bar, un amico confessa al regista israeliano Ari Folman un suo incubo ricorrente: sogna di essere inseguito da 26 cani inferociti. Ha la certezza del numero perchè, quando l’esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, evidentemente ritroso nell’uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l’arrivo dei soldati. I cani eliminati erano giustappunto 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d’armi dell’epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso.

Folman, regista e sceneggiatore di qualità (è, tra l’altro, uno degli sceneggiatori di In Treatment, serie televisiva di grande successo in Israele adattata da Rodrigo Garcia per il canale dell’HBO) affronta con coraggio uno dei nervi scoperti della storia recente della democrazia israeliana. Non è però interessato a distribuire patenti di colpevolezza senza prove (sono note le accuse all’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon considerato responsabile del fatto di aver saputo e taciuto, se non addirittura favorito).
Folman scava più a fondo utilizzando un metodo che sta progressivamente trovando una sua consistenza nel mondo della comunicazione. Decide cioè che inanellare le interviste porterebbe a realizzare un documentario rivolto a un pubblico di nicchia. Racconta allora utilizzando un’animazione scarna ma efficace che riesce a restituire il work in progress di un rimosso che da forme fantastiche o mitiche (esplicita la citazione di Apocalypse Now) passa a focalizzare una realtà orrenda che, proprio perchè tale, era stata espunta dal ricordo del singolo e della collettività. Non è un caso che il primo amico a cui Folman si rivolge dopo aver avuto l’idea sia un analista. La scelta di questo tipo di terapeuta rivela una particolare attenzione dell’autore alla materia ma anche quella che egli sente come una necessità per tutto il suo popolo: una sorta di seduta collettiva che aiuti a fare chiarezza innanzitutto in se stessi.


Questo film costituisce una riprova (semmai ce ne fosse ancora bisogno) che la demonizzazione tout court di Israele è del tutto miope. Se davvero si vuole dare un contributo internazionale alla soluzione del conflitto israelo-palestinese è proprio sostenendo chi, come l’israeliano Folman, incentiva il recupero di una memoria scomoda che si potranno ottenere piccoli ma significativi risultati.

L’UOMO IN PIÚ di Paolo Sorrentino (2001)

23 Mag

Giancarlo Zappoli: Napoli, anni ’80. Tony è un cantante all’apice del successo. Sprezzante e apparentemente sicuro di sé, ma cocainomane incallito e con la morte del fratello sulla coscienza. Antonio Pisapia è uno stopper integro che non si presta ai trucchi del calcio scommesse. Film interessante e ispirato a due personaggi reali: il cantautore Califano e il calciatore Di Bartolomei. Si svolge i una Napoli diversa, spietata e cinica senza mai essere folkloristica.

Film TV:  Antonio Pisapia, in arte Tony, è un “crooner” partenopeo dalla voce seducente, artista da balera conteso dalle donne, coccolato dai manager e rispettato dai pusher. Antonio Pisapia è invece uno stopper di classe e – dopo un grave infortunio – un allenatore dilettante ma geniale, inventore di un modulo alla Sacchi. Per il suo lungometraggio d’esordio, Sorrentino sceglie un pedinamento intenso, entra nei personaggi, li assale con uno sguardo partecipe e lascia che si sciolgano nel dramma: da brivido il monologo di Servillo in Tv.

Morandini: Napoli, 1980 e 1984: vite parallele di due Antonio Pisapia. Film critico sugli ambienti della canzone e del calcio, ma non predicatorio: l’amarezza prevale sull’indignazione. Conta soprattutto come ritratto di due personaggi che il regista napoletano pedina con intensità, pudore, precisione di dettagli e una finezza ellittica che va a scapito dell’efficacia – o della facilità? – narrativa. Ottimo Renzi, straordinario Servillo. 2 Grolle d’oro: sceneggiatura, miglior attore (Servillo).

THE DREAMERS di Bernardo Bertolucci (2003)

13 Mag

Morandini: Scritto da Gilbert Adair, liberamente tratto dal suo romanzo The Holy Innocents (1989, Santi innocenti e sognatori, 2003). Parigi, febbraio 1968. Durante una manifestazione di protesta per l’allontanamento di Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque Française, lo studente nordamericano Matthew fa amicizia con i gemelli Isabelle e Théo che l’invitano a trasferirsi nel loro appartamento, lasciato libero dai genitori in vacanza. Il rapporto fra i tre – legati dalle stesse passioni (cinema soprattutto, musica rock, politica, la rivolta nell’aria degli anni ’60) – si fa sempre più stretto e trasgressivo, rivolto ai fleurs du mal del principio del piacere. Quando un sasso rompe il vetro della finestra dove dormono (“La rue est entrée dans la chambre” dice Isabelle) i tre scendono in strada. Varcata la soglia dell’alta età, Bertolucci si volta indietro a rievocare, con nostalgia corretta dalla lucidità critica, la sua giovinezza di cinéphile, i soggiorni parigini degli anni ’60 (i primi, non gli ultimi), i bollori dell’impegno politico, la ricerca di identità. Lo fa raccontando “di due che non riescono a cessare di essere uno e di uno che non riesce a smettere di essere (scisso) in due” (Gianni Canova). Ci riesce nel finale. La goffaggine dei personaggi intacca anche il resto. Gli è sfuggito (non ha approfondito) il suo nucleo tragico. Si chiama Isabelle, non a caso l’unica sfiorata dall’idea della morte che rimanda a quella della Mouchette di Bernanos-Bresson. È la vera vittima del rapporto simbiotico e regressivo che la lega a Théo e che per lui è poco più di un giuoco da snob: per Isabelle è un amore impossibile, una passione abortita. Fotografia: Fabio Cianchetti premiata con un Globo d’oro. Con la supervisione di Janice Ginsberg, le canzoni hanno la funzione di manifesti d’epoca.

Giancarlo Zappoli: Bertolucci torna a raccontare di un mondo medio borghese che ben conosce ma che non è rappresentativo del ’68 e delle sue rivolte politiche e sessuali. C’erano anche loro, è vero, e probabilmente oggi stanno dall’altra parte ma il film non lo dice. Preferisce attardarsi sui giovani corpi nudi lasciando spazio a una frigida ricerca estetica. Per molti di quelli che non c’erano è una lettura consolatoria fatta da un Maestro che forse ha dimenticato i veri, per quanto confusi, sogni di quella generazione.

Film TV: Parigi, 1968: rimasti soli mentre i genitori sono in vacanza, Isabelle e Theo invitano a casa loro Matthew, un americano che hanno appena conosciuto. I sognatori di Bertolucci sognano al chiuso, nelle prime file della sala cinematografica e in una bella casa vuota: si raccontano le insofferenze della borghesia illuminata francese e della piccola borghesia americana, che con la tolleranza pacifista cerca di ritrovare l’innocenza perduta. Sognano e sanno che non sarà mai più così, più maturi dei loro corpi, più antichi delle immagini del “loro” cinema. Aperto dal dolly che discende dalla Tour Eiffel (e che si ripete in analoghi movimenti fuori dall’ascensore della casa dei ragazzi), accompagnato da una colonna sonora di “etimologica” precisione e di istantaneo calore emotivo (Jimi Hendrix ed Edith Piaf, i Doors e Françoise Hardy), The Dreamers è girato con la leggerezza del cinema che negli anni ’60 scopriva il mondo, con le fughe di Bande à part e le ingenuità di Pierrot le fou e di Partner, con la voglia di sporcare lo schermo con un pezzo di autobiografia felice, di raccontare che l’unica via di uscita è il suicidio, come per Mouchette, ma che a volte, un colpo d’aria, un sogno che per un istante si materializza, ti può fermare. E la voglia di non dimenticare e di non rimpiangere niente.

DIREKTØREN FOR DET HELE di Lars von Trier (2006)

20 Apr

Film TV: Il proprietario di una società è intenzionato a vendere tutto. Ma quando i potenziali acquirenti vogliono definire l’operazione con il presidente della società, si scopre che quest’ultimo in realtà non esiste realmente. Il proprietario decide allora di ingaggiare un attore fallito per interpretarne il ruolo… Una commedia molto divertente sugli equivoci, gli inganni, i soprusi, le tensioni di un’azienda, sull’odiata Islanda (ricca e buzzurra) e la decadente Danimarca, sul teatro, sul cinema e sui personaggi che tutti (non solo l’attore protagonista) siamo costretti a impersonare giorno dopo giorno e che, giorno dopo giorno, divorano la nostra autentica personalità. Gli interpreti sono straordinari, i dialoghi in punta di penna, laconici, surreali.

Giancarlo Zappoli: Lars Von Trier si prende una (apparente) vacanza dal dramma della trilogia ‘americana’ per confezionare una commedia di cui si diverte a rivelare le scelte di scrittura intervenendo ogni tanto come voce off. In realtà aveva già dato prova di saper volgere in sorriso la crudeltà sadica del suo sguardo sul mondo in Idioti. Qui però, autoliberatosi dai vincoli del Dogma, può dare ancor più libero sfogo a una vena satirica che, come sempre, non riesce a contenere il suo strabordante ego. A questo punto scatta la dinamica consueta: o si apprezza o si detesta il ‘marcio’ che Lars trova non solo in Danimarca ma nel nostro mondo. La falsità dei rapporti di lavoro, il profitto che calpesta qualsiasi relazione, il bisogno di autoaffermazione che scavalca ogni concetto di equità. L’etica è una parola cancellata dal vocabolario e se il ruvido businessman islandese non finge neppure di averla mai sentita nominare a poco servono i machiavellismi di chi vuol negare a se stesso la propria amoralità.

Morandini: Ravn vuol vendere la sua azienda di informatica, ma ha un problema: da quando l’ha costituita, si è inventato un falso capo irraggiungibile sul quale scaricare la responsabilità di decisioni impopolari. Poiché i futuri compratori islandesi insistono nel voler negoziare il trapasso col capo in persona, assolda per impersonarlo un attore… Giunto ai 50 anni e deciso a “rivitalizzarsi”, von Trier ha scritto e diretto per la prima volta una commedia che è una commedia nella commedia. Molto parlata. Lo spunto è ingegnoso e allude alla realtà, a una strategia padronale che ognuno di noi conosce. Qua e là il film è faticoso da seguire, e persino sgradevole, almeno agli occhi. Nei titoli di testa il nome del direttore della fotografia è sostituito da un dispositivo tecnico: AUTOMAVISION. Siamo o no nel campo dell’informatica? Von Trier dichiara che non era lui a tenere il controllo, ma il computer. È difficile credergli; il “grande capo”, quello vero, è il regista. C’è da divertirsi, comunque, a sentire gli islandesi insultare i danesi che li hanno governati per quattro secoli.

LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti (2001)

18 Apr

Giancarlo Zappoli: Moretti torna a costruire un ‘personaggio’: che non è più Apicella e neppure il prete di La messa è finita. Lo fa con tutto il rigore che neppure i più accesi detrattori gli hanno mai negato. Divenuto padre di Pietro cinque anni fa Moretti deve avere colto il senso di quello che è il titolo dell’ultimo film di Zanussi (non uscito da noi) : “La vita come malattia mortale trasmissibile per via sessuale“. Cioè dando la vita a un figlio gli assicuriamo inevitabilmente anche la morte. E se questa accade prematuramente e mentre i genitori sono ancora presenti il dramma è devastante. Il film ( come già La vita è bella di Benigni) è come diviso in due parti. La prima, in cui Moretti ‘fa’ Moretti con le sue idiosincrasie, le sue scarpe, le sue corse, le sue incertezze, i suoi incupimenti seguiti da improvvisi sorrisi luminosi. La seconda, in seguito alla morte di Andrea, in cui si muta bruscamente registro. I lutti laceranti cambiano nel profondo, ma forse si poteva lavorare un po’ di più sul Giovanni personaggio e un po’ meno sul Nanni che gli si sovrappone. Resta comunque un film da vedere.

Morandini: Tema centrale: l’elaborazione del lutto. Si dà spazio al padre, il più fragile nel corto circuito tra l’insensatezza di un dolore insostenibile e il senso che si tenta di dargli per collocarlo nella trama della vita che continua, per rendere pensabile quel che è impensabile, portandolo alla parola e all’immagine. L’itinerario è raccontato con forza impietosa che si accompagna alla difficile arte del pudore. Nel suo film più maturo, anche stilisticamente, Moretti fa piangere, fa sorridere, fa aspettare. Sfiora i confini del mélo, raggelandolo.  Tutto funziona: la resa degli attori, la fotografia di Beppe Lanci, la musica discreta di Nicola Piovani. Palma d’oro a Cannes, 3 premi Donatello (film, Laura Morante, musica), Nastro d’argento al miglior film.

Film TV: Giovanni, psicanalista di Ancona, è convocato dal preside della scuola di suo figlio Andrea, accusato di aver rubato un fossile. A casa l’uomo discute con la moglie Paola sulla responsabilità del figlio, che nega il furto e ricuce in anticipo lo strappo coi genitori. Come si comunica l’afflizione. Secondo Nanni Moretti attraverso un’estetica del pudore, quella che rende questo film rigoroso e bellissimo. Uno sguardo morale sul dolore capace di non spettacolarizzare le emozioni.