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SPIDER di David Cronenberg (2002)

5 Gen

Mauro Gervasini: Un viaggio al termine della follia e un viaggio nel cinema di David Cronenberg. La riflessione su un altrove falso (falso?) che non è su Marte, o sottoterra, o in mare, o incastrato in una tv che fabbrica consenso, ma è dentro di noi. (…) Con i suoi reticolati strani che diventano, in questo caso, la materia giallognola della pellicola: ragnatele, spaccature del vetro, carte da parati che sembrano fatte di catarro, tubi che attorcigliano; in un contesto che tende all’astrazione.

Morandini: Dal romanzo (1990) di Patrick McGrath che l’ha adattato col regista. Il sedicesimo lungometraggio di Cronenberg esplora gli anfratti umidi e vischiosi di una mente sconvolta, quella di un bambino che, dopo aver sviluppato un affetto morboso per la madre – parallelo alla ripugnanza per la figura paterna – è sprofondato in un infantile senso di colpa rimosso o trasfigurato. La sagacia registica è evidente: memorabile l’interpretazione “ragnesca” di Ralph Fiennes e notevole nella triplice parte Miranda Richardson; la cupa e claustrofobica ambientazione in interni (i muri, i fili) e in esterni (il gasometro, lo squallore periferico); gli agganci ai film precedenti e i rimandi letterari; l’allucinazione dello scrivere, anzi dell’essere scritti. Qualcosa, però, non funziona e frena l’empatia della spettatore. Non è soltanto il primario canovaccio edipico da manuale di psicanalisi, cioè l’incompatibilità tra sfera sessuale e sfera materna. È qualcosa che sta nei rapporti soltanto in parte risolti tra letteratura e cinema, e forse nello stesso romanzo di McGrath.

Film TV: Sarebbe stato impossibile trovare un regista più adatto di Cronenberg per narrare il solitario viaggio nell’incubo di Spider, per riuscire a rendere gli impercettibili confini tra i suoi mondi, per fargli rivivere da spettatore ciò che ha già vissuto da bambino (o forse no…). L’autore canadese è un maestro nella materializzazione di un’atmosfera che si fa racconto, sperdimento interiore, e nella frantumazione concentrica dei punti di vista, tanto da affogarci nella stessa incertezza di prospettiva del protagonista (uno straordinario Fiennes, la cui performance può essere valutata appieno solo nella versione originale), nella sua memoria e nella sua coscienza deragliate.Un film di “percezione” più che di “narrazione”; basato non su un plot, ma su una trama che pare modellata da Escher. Sentire i borbottii di Spider, intuire gli scarabocchi tracciati sui suoi quaderni, annusare l’aria che lui annusa. Nulla ha senso se non l’asfissiante odore di gas.

PEINDRE OU FAIRE L’AMOUR di Arnaud et Jean Marie Larrieu (2005)

23 Dic

Giancarlo Zappoli: William e Madeleine abitano in una città ai piedi della montagna. Sposati da lungo tempo, con una figlia che vive in Italia, sono fedeli l’uno all’altra. Durante una passeggiata Madeleine decide di ritrarre una vecchia casa. Commedia tipicamente francese sul risveglio dei sensi che si pensavano già sopiti in una coppia borghese. Nulla di nuovo sotto il sole. Ivi compresa la bravura degli attori.

Morandini: A Grenoble William, meteorologo in pensione, e Madeleine, pittrice dilettante, sono una coppia di cinquantenni tranquilli e affiatati che, partita l’unica figlia per l’Italia, sono presi da una sottile inquietudine, come consapevoli della vecchiaia in arrivo. Sbrigato da disattenti critici contenutisti come una commedia, volgarotta nel suo intellettualismo, sulla promiscuità sessuale, l’opus n. 4 dei fratelli Larrieu è un film crepuscolare e un po’ onirico in cui è determinante la presenza dei paesaggi di montagna. Percorre l’ambiguo territorio dei sentimenti e della ritrovata sensualità in una coppia matura che, in modo quasi innocente, regredisce ai fremiti dell’adolescenza e s’inoltra verso l’ignoto. È un film sul tempo che passa e sul tempo che fa, così importante quando non si è in città. Nell’affiatato quartetto degli interpreti la Azéma e Auteuil, per la prima volta insieme, recitano intensamente con un buon margine di improvvisazione.

Mauro Gervasini: (…) è un film involontariamente comico, impossibile da prendere sul serio. Non fraintendete, non per il tema, che può essere sviscerato in mille modi, di sicuro anche interessanti, ma per come invece lo trattano i due registi. Con una estetica da pro loco della campagna francese e un intersecarsi di snobismi intellettuali da far paura. Di fronte alla scena di “sculto” di Amira Casar che dopo aver urinato chiede a Daniel Auteuil di essere pulita, come è possibile che registi, attori, sceneggiatori non si pongano delle domande sul senso di quel che accade e sull’effetto che potrebbe avere (e infatti ha) sul pubblico?

REBECCA di Alfred Hitchcock (1940)

17 Nov

Film TV: Primo film hollywoodiano di Sir Alfred, prodotto da David O Selznick: un concentrato di suspence adattato per lo schermo da un gotico racconto di Daphne du Maurier. Unico Oscar vinto da Hitch come miglior film.

Morandini: Dal romanzo (1938) di Daphne du Maurier. Dopo Intrigo internazionale il più lungo film di Hitchcock. Soprattutto nella 1ª parte una romantica, angosciosa, disperata mystery story. Nel racconto gotico è una vetta.

Mauro Gervasini: (…) resta uno dei suoi titoli di culto, per la perfezione con la quale piega alle suggestioni del cinema i toni gotici e morbosi della novella di Daphne du Maurier dalla quale Rebecca è tratto. In particolare, l’atmosfera all’interno della magione, dominata dalla fantasmatica presenza di una donna scomparsa, è resa in maniera magistrale, con momenti che virano verso l’espressionismo. Per Jean Fontaine il ruolo della vita.

Mereghetti: L’inizio da commedia e il finale da film giudiziario non sono al livello della parte centrale. A Hitch non piaceva la storia a nche se tornò su temi simili (passato che torna e sentirsi indegni della persona amata).

LA DOLCE VITA di Federico Fellini (1960)

17 Nov

Morandini: Viaggio attraverso il disgusto, cinegiornale e affresco di una Roma raccontata come una Babilonia precristiana, affascinante e turpe. Una materia da giornale in rotocalco trasfigurata in epica. Uno spartiacque nel cinema italiano, un film-cerniera nell’itinerario felliniano con la sua costruzione ad affresco, a blocchi narrativi e retrospettivamente un film storico che interpreta con acutezza un momento nella storia d’Italia. Dopo lo scandalo ecclesiastico e politico, un successo mondiale. Lanciò, anche a livello internazionale, il termine “paparazzo”.

Mauro Gervasini: (…) non è solo un film, ma è ormai un modo di dire, persino una categoria esistenziale. Poteva esserci maggior paradosso per il capolavoro di Fellini che quello di diventare “luogo comune” negando nel suo diffondersi il proprio significato? Eppure non crediamo che esista nel nostro cinema un film più disperato di questo, che oltretutto sembra parlarci sempre dell’oggi, di come siamo e sicuramente saremo. Ancor più disperato, se si pensa che nel 1961 fu campione di incassi della stagione, esattamente come NON succederebbe oggi. Marcello non è Federico, ma siamo noi, o almeno quelli di noi che riescono a percepire come dietro quel refrain “Dolce vita” ci sia un mondo effimero, molto amaro.

Film TV: Marcello, malgrado le proprie ambizioni di scrittore, si è adattato al ruolo di giornalista mondano. Conosce e frequenta così il mondo dorato che gravita attorno a via Veneto, ne assorbe la mentalità e ne copia i comportamenti. Anche la sua vita sentimentale è sregolata per le avventure occasionali che logorano il suo rapporto con Emma, la donna con cui vive. Nemmeno la tragedia dell’intellettuale Steiner lo scuote. Fellini confessa la propria crisi (che è la crisi di un’epoca) dando voce al suo fedelissimo alter ego Mastroianni, e guidandolo attraverso l’affresco di una città dipinta con lirico sconforto.

Mereghetti: (…) un affresco composito di un mondo senza più nessun punto di riferimento, un viaggio nella notte durante il sonno della ragione, attraverso una civiltà corrotta e putrescente nella quale tutto crolla di schianto, valori autentici e falsi miti, tradizioni secolari e convinzioni nate appena ieri. Cult movie anche all’estero.

SEI DONNE PER L’ASSASSINO DI Mario Bava (1964)

2 Ott

Morandini: Il film codifica il thriller all’italiana, già sperimentato dal regista in La ragazza che sapeva troppo (1963) di cui condivide la debolezza logica della storia, cioè della sceneggiatura di Marcello Fondato. Fonte di ispirazione per D. Argento. Bava ne approfitta per testare, con Ubaldo Terzano, l’impiego del colore con un irrealismo che diventa barocchismo senza freni e seminare false piste: i personaggi si confondono tra loro e con i manichini dell’atelier: “Il pathos della morte e lo shock del sadismo, in questo modo, vengono messi a distanza.” (A. Pezzotta).

Film TV: Direttore della fotografia, prima che regista, Mario Bava si dimostra ancora una volta un pittore dell’inquadratura e sceglie per le sequenza dei delitti tavolozze cromatiche antinaturalistiche e violente. Sei donne per l’assassino, in questo senso, è un’opera visionaria che inaugura il thriller all’italiana.

Mauro Gervasini: (…) anche se non è di Bava la prima “soggettiva dell’assassino” (già Ulmer in Black Cat degli anni ’30 se ne servì) all’epoca dell’uscita di questo film quella sequenza risultò rivoluzionaria. La matrice di tutto quello che diventerà il giallo argentiano nasce tutta da qui, a partire dalla rielaborazione in chiave pop dei motivi cromatici. Una scena di questo film, quella della vasca da bagno, è citata anche da Pedro Almovar in Matador.

Mereghetti: Giallo senza troppa logica, girato con uno stile personale, delirante e barocco, che sembra pop art ante litteram. Merita di essere ricordato anche come l’ispiratore inconfessato dei primi film di Dario Argento (la soluzione è la stessa del L’uccello dalle piume di cristallo).

DERNIER DOMICILE CONNU di José Giovanni (1969)

26 Set

Mauro Gervasini: Ultimo domicilio conosciuto adatta un romanzo di Joseph Harrington e appartiene al periodo più disilluso dell’autore. Il personaggio di Lino Ventura, un maturo sbirro alter-ego del regista, si trova a dover fronteggiare più le pastoie burocratiche del sistema che il milieu criminale. L’istituzione (poliziesca, carceraria, giudiziaria) è nel cinema di José Giovanni un’arma a doppio taglio di cui diffidare. Il protagonista è al solito mostruosamente bravo. Ma il vero punto di vista, prima innocente e poi amaro, del film è quello della ragazza: la bravissima Marlène Jobert.

Morandini: José Giovanni è un buon conoscitore dell’ambiente della malavita francese e sa costruire personaggi attendibili e attraenti come dimostra in questo suo film sobrio e amaro, di denuncia sociale più che politica. Marlène Jobert fu una rivelazione.


Film TV: Con sobria e precisa efficacia, il regista critica le istituzioni esecutive che schiacciano l’individuo con l’alibi del bene comune. Spesso mero concetto astratto. Da pelle d’oca la prova di Lino Ventura. Azzeccate le atmosfere dolenti e crepuscolari.

Mereghetti: (…) un bel noir pieno di amarezza che riflette su una giustizia inumana dove il fine sembra giustificare i mezzi. Ottima come sempre l’interpretazione di Ventura.