Andare oltre di Alberto Pezzotta
Come Invictus, Hereafter manifesta l’intenzione di Eastwood di fare i conti con la storia recente. Lo tsunami che ha devastato il Sud Est asiatico alla fine del 2004 e gli attentati terroristi a Londra nel luglio 2005 non sono il centro del film, ma non sono nemmeno un pretesto: attraversano la vita dei personaggi, e in varia misura la cambiano. Sono lo sfondo su cui Eastwood imposta un discorso che, come dice eloquentemente il titolo inglese (non così immediatamente decodificabile per lo spettatore italiano), si riferisce all’aldilà. La strategia della sceneggiatura di Peter Morgan è chiara: partire dalle tragedie contemporanee, che siano causate dalla natura o dall’uomo, per riflettere su ciò che ci aspetta dopo la morte. Analogamente all’italiano “al di là”, l’inglese “hereafter” nasce come avverbio prima di diventare nome. E come avverbio, non ha un significato metafisico: significa solo “da qui in poi”. Il concetto è ancora più laico che in italiano, dove l’espressione “al di là”, prima di diventare un sostantivo, allude comunque a un superamento, a qualcosa di ulteriore. “Hereafter”, invece, “da qui in poi”, o “d’ora in poi”, è qualcosa di molto più prosaico. In effetti, nel film, lo stesso medium George, che comunica da anni con i defunti, dice di non saperne molto su ciò che effettivamente ci aspetta “dopo”. C’è un dopo, ma cosa lo riempia non si sa. Malgrado ciò, il rischio di una deriva new age, usiamo pure questo termine sintomo di obbrobrio, era certo possibile, nel momento in cui le tragedie contingenti della Storia fossero state messe nella prospettiva dell’eternità che tutto relativizza. Merito di Morgan, di Eastwood o di entrambi, ciò nel film non avviene. Il rapporto tra “aldiquà” e “dopo”, se non altro, è sempre filtrato da una prospettiva strettamente individuale e individualista, mai trascendente. Qui si vede molto bene (come si vedeva in Invictus) la mentalità americana, che esalta l’eccezionalità del singolo che emerge dalla Storia. Ma questa scelta di umanesimo radicale, antistorico e a-sociale, trae valore etico nel fatto che del singolo Eastwood sottolinea la fragilità e la finitezza. Il singolo (che è anche solitario: George da tempo è solo, Marie e Marcus lo diventano), posto sul crinale tra la Storia e “ciò che c’è dopo”, rivela la sua vulnerabilità, la sua mancanza di difese. Hereafter, più che un film su ciò che è designato dal titolo, è un film sul dolore, sulla finitezza. In questo senso è coerente e necessario nell’evoluzione del cinema di Eastwood, e aggiunge anche qualcosa di bello e di toccante ai suoi ultimi film che, come Gran Torino, sembrano vette oltre le quali è difficile immaginare un seguito.
A chi segue da anni la filmografia di questo regista, è fin troppo facile analizzare Hereafter alla luce delle opere precedenti, per trovare la coerenza di uno sviluppo tematico, e magari bearsi di rinvenire temi “metafisici” fin dagli anni Settanta. D’accordo, il pistolero di High Plains Drifter probabilmente era un fantasma, e magari anche il giustiziere apocalittico di Pale Rider Eastwood ha già girato un breve film di fantasmi, nel 1985: Vanessa in the Garden, episodio della serie televisiva «Amazing Stories» ideata da Steven Spielberg (che di Hereafter è uno dei produttori esecutivi), dove la donna amata torna nella realtà evocata dal pittore che la dipinge. E allora? L’analisi autorialista rinviene ricorrenze, e in ciò si autogiustifica; mentre sarebbe più importante sottolineare le differenze tra il lato fantastico dell’Eastwood passato e quello odierno. Ciò che sembra emergere, invece, film dopo film, almeno a partire da Honkytonk Man, è una riflessione sulla fragilità della vita e l’impotenza dell’uomo. In questa prospettiva, la celebre frase pronunciata da Eastwood attore in A Perfect World, «Io non so niente», e che nel contesto di quel film sembrava un’autoassoluzione e una dichiarazione programmatica un po’ facile, si arricchisce, di film in film, di una sostanza umana più profonda. Ovvio sottolineare come il mélo, a partire da un certo punto, e prima ancora di The Bridges of Madison County, abbia giocato un ruolo importante nel cinema eastwoodiano, fornendogli la gabbia di genere e l’armamentario retorico per parlare di temi come la perdita e la morte, evidentemente da lui sentiti come rilevanti. In Hereafter il mélo è affrontato direttamente e nel modo più rischioso, nel segmento in cui il piccolo Jason viene travolto da un’auto mentre sta fuggendo da alcuni teppisti. La morte di un bambino è il peggio, in termini di ricatto emotivo. Ma a differenza che in tanti film precedenti di Eastwood, dove la morte lacrimevole avveniva alla fine, qui avviene all’inizio. Non che questo sia una novità, certo, ma dà un senso più pregnante al titolo: “hereafter”, da questo momento in poi, sei solo e te la devi vedere tu. E il fatto che il personaggio in questione sia un ragazzino, evita ogni eroicizzazione.
Con Hereafter il cinema di Eastwood sembra fare a meno del personaggio eroico, sacrificale e comunque eccezionale indispensabile nel suo cinema. Walt Kowalski di Gran Torino è stato l’ultimo di una lunga schiera che comprende il cantante country Red Stovall, Charlie Parker e donne come la pugile di Million Dollar Baby e la madre ostinata di Changeling, che dei film di Eastwood recenti è forse il meno compreso e più sottovalutato. Forse solo Letters from Iwo Jima faceva a meno di eroi. Certo, si può obiettare, il medium George porta su di sé le stimmate dell’unico. Ma lo stesso non si può dire di Marie e di Marcus: sono individui, ma non unici. Della prima, in realtà, possiamo anche dire che non esiste come personaggio, che di lei non ci importa molto, e che nella sceneggiatura ha solo un ruolo di servizio, quello di favorire l’incontro tra Marcus e Jason. Colpa della sceneggiatura, probabilmente, e di un’attrice il cui talento ed empatia non sono folgoranti. Ma è importante, all’interno del film, la medietà e normalità del personaggio, che si trova eco anche nelle altri parti. Che l’ex medium George sia licenziato da una fabbrica per esubero di personale e sia tentato di riprendere il suo vecchio lavoro, non è solo un tocco di realismo sociale contemporaneo, ma un modo intelligente di abbassare, di togliere enfasi alla comunicazione con l’aldilà. E il ragazzino (Eastwood è un grande direttore di ragazzini) è semplicemente perfetto e normale, senza smancerie. Non è un film privo di difetti, Hereafter. Soprattutto nell’episodio francese, la sceneggiatura infila una serie di scivoloni abbastanza imperdonabili, come la cialtronissima discussione su luci e ombre nella vita di Mitterrand. E così come i francesi avranno da lamentarsi di quella torre Eiffel che spunta ovunque per chiarire che siamo a Parigi, gli italiani non possono digerire il cuoco del corso di cucina (doppiato in quel modo, poi), che affetta pomodori con Puccini in sottofondo. Così come non è un granché il finalino in cui Marcus sembra improvvisamente dotato non solo di capacità medianiche, ma anche del dono della preveggenza, e sembra vedersi in flash forward baciare hollywoodianamente l’anima gemella infine ritrovata.
Eastwood ci ha abituato a ben altri finali, penso solo alla solitudine di Frankie Dunn alla fine di Million Dollar Baby. Ma per una volta si può anche vedere oltre, al di là. Hereafter è la risposta di Eastwood alla domanda su come si possa e si debba continuare a fare film dopo avere raccolto tanti allori. A Eastwood fare film, pare di capire, sembra necessario in un mondo devasto dalla follia e dal dolore. Ed è commovente che un regista di ottant’anni voglia occuparsi del mondo presente, e con pudore estremo parli delle tragedie che hanno sconvolto il suo Paese. In Invictusl’aereo che sorvola lo stadio innesca un’ombra di minaccia subito dissolta: non vuole schiantarsi su migliaia di persone, ma solo fare gli auguri alla nazionale di rugby. E innesca una nostalgia struggente per un mondo, quello del 1995, in cui non si concepiva che gli aerei di linea potessero essere usati come armi distruzione di massa. In Hereafter, l’evocazione di sguincio degli attentati di Londra del 2005 è un passo in più verso l’irrappresentabile, l’11 settembre 2001. Non a caso Eastwood sceglie di rappresentare lo tsunami iniziale con tutto il realismo allucinante permesso oggi dagli effetti digitali (realizzando, tra parentesi, una sequenza emozionante e impressionante, sobria per l’assenza di musica se non alla fine, e terribilmente bella da vedere). Al contrario, la rappresentazione dell’attentato terrorista è ridotto a un botto e a una fiammata che esce da una galleria. L’orrore della natura appartiene pur sempre alla sfera del sublime che, kantianamente, ribadisce la nostra finitezza. Mentre la morte inflitta dall’uomo all’uomo va oltre ogni logica ed è molto meno rappresentabile. Per questo la sequenza il cui il piccolo Marcus rincorre il suo berretto tra le gambe della folla è un momento di grande etica della visione: solo alla fine capiamo che in questo modo evita di morire, solo alla fine ci ricordiamo che è il 7 luglio 2005 (e solo oltre sapremo che è stato il gemello morto a intervenire facendogli cadere il berretto). Per rappresentare una tragedia, bisogna attaccarsi a qualcosa di molto piccolo e marginale, come un bambino che si preoccupa solo di cercare il suo cappello.
da Cineforum n.501
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