Giancarlo Zappoli: o scorrere delle stagioni di un anno accompagna la vita di un gruppo di personaggi. Gerri, psicologa e Tom, geologo, sono sposati da decenni e hanno un figlio avvocato. Gerri e Tom ospitano spesso Mary, segretaria nella clinica in cui lavora Gerri.
Mike Leigh, dopo la variazione sul tema di Happy Go Lucky torna ai suoi soggetti preferiti: le persone (non i personaggi si badi bene) colte nel loro quotidiano con i piccoli/grandi problemi del vivere e con le piccole/grandi gioie (i pomodori coltivati nell’orto fuori città). Leigh è innanzitutto un grande sceneggiatore. Non c’è uno dei suoi caratteri che pronunci frasi che suonino false ma quello che soprattutto resta intatto nel suo fare cinema è la pietas nei confronti delle persone che ritrae in frammenti di vita in cui ci si può in tutto o in parte riconoscere anche se si vive a latitudini diverse. Sia chiaro che non si tratta di ‘pietismo’. I suoi protagonisti non si piangono addosso. Vivono le loro contraddizioni, ne soffrono, Leigh ci mostra le loro lacrime ma anche i loro sorrisi senza pretendere nè di fare della facile psicologia nè, in questo caso, di analizzare uno spaccato sociale particolarmente definito.
Film TV: Another Year si snoda tra quattro weekend di altrettante stagioni, passando da barbeque in giardino a lavori nell’orto e chiacchiere in cucina. Il regista di Segreti e bugie vuole distillare il senso della vita che fugge, cerca l’ordinario e lo straordinario di ogni accidentato percorso individuale. Ha dalla sua un cast di facce imperfette, che testimoniano la non omologazione del progetto. E interpreti meravigliosi, capaci di padroneggiare lunghissimi dialoghi, prosaici ma mai per caso: capita che la cilindrata di un’auto sveli un personaggio più di dieci pagine di voice over. Da sempre Mike Leigh procura salutari antidoti all’alienazione da cinema di mero styling. Quello che vorrebbe anestetizzare la vergogna di provare sentimenti universali come solitudine, desiderio di calore e condivisione, gelosia, paura di invecchiare (il più giovane del cast ha 30 anni). È cinema della cura, in senso produttivo (il film come architettura di una “famiglia” di collaboratori fissi) e “filantropico”: anche la locandina originale, dove è raffigurato un solido albero, torna sull’idea che la vita sia un insieme di relazioni e un’occupazione che richiede tempo.