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ANOTHER YEAR di Mike Leigh (2010)

1 Set

Giancarlo Zappoli: o scorrere delle stagioni di un anno accompagna la vita di un gruppo di personaggi. Gerri, psicologa e Tom, geologo, sono sposati da decenni e hanno un figlio avvocato. Gerri e Tom ospitano spesso Mary, segretaria nella clinica in cui lavora Gerri.
Mike Leigh, dopo la variazione sul tema di Happy Go Lucky torna ai suoi soggetti preferiti: le persone (non i personaggi si badi bene) colte nel loro quotidiano con i piccoli/grandi problemi del vivere e con le piccole/grandi  gioie (i pomodori coltivati nell’orto fuori città). Leigh è innanzitutto un grande sceneggiatore. Non c’è uno dei suoi caratteri che pronunci frasi che suonino false ma quello che soprattutto resta intatto nel suo fare cinema è la pietas nei confronti delle persone che ritrae in frammenti di vita in cui ci si può in tutto o in parte riconoscere anche se si vive a latitudini diverse. Sia chiaro che non si tratta di ‘pietismo’. I suoi protagonisti non si piangono addosso. Vivono  le loro contraddizioni, ne soffrono, Leigh ci mostra le loro lacrime ma anche i loro sorrisi senza pretendere nè di fare della facile psicologia nè, in questo caso, di analizzare uno spaccato sociale particolarmente definito.

Film TV: Another Year si snoda tra quattro weekend di altrettante stagioni, passando da barbeque in giardino a lavori nell’orto e chiacchiere in cucina. Il regista di Segreti e bugie vuole distillare il senso della vita che fugge, cerca l’ordinario e lo straordinario di ogni accidentato percorso individuale. Ha dalla sua un cast di facce imperfette, che testimoniano la non omologazione del progetto. E interpreti meravigliosi, capaci di padroneggiare lunghissimi dialoghi, prosaici ma mai per caso: capita che la cilindrata di un’auto sveli un personaggio più di dieci pagine di voice over. Da sempre Mike Leigh procura salutari antidoti all’alienazione da cinema di mero styling. Quello che vorrebbe anestetizzare la vergogna di provare sentimenti universali come solitudine, desiderio di calore e condivisione, gelosia, paura di invecchiare (il più giovane del cast ha 30 anni). È cinema della cura, in senso produttivo (il film come architettura di una “famiglia” di collaboratori fissi) e “filantropico”: anche la locandina originale, dove è raffigurato un solido albero, torna sull’idea che la vita sia un insieme di relazioni e un’occupazione che richiede tempo.

POETRY di Lee Chang-dong (2010)

8 Nov

Una lezione di dignità di Ilaria Feole:

Mija indossa la terza età con classe, con le sue gonne ampie dai colori primaverili e i sorrisi candidi da ragazzina: la senilità inizia a sfiorarla, le parole le sfuggono e allora tenta di trattenerle mettendole in rima su un foglio. S’iscrive a un corso di poesia, contempla il cielo e attende che l’ispirazione le parli, attraverso un fiore cremisi o un’albicocca calpestata.

Nel bel mezzo della sua ricerca di Bellezza, Mija incontra miseria e dolore, nel segreto nascosto dietro una morte, che suo malgrado la tocca da vicino. E contro ogni aspettativa, sarà in quel dolore e in quella morte che infine troverà la sua poesia. Premiata a Cannes 2010, la sceneggiatura di Lee Chang-dong è una lezione, più che di poesia, di dignità (da cercare e difendere ovunque, contro la malattia, la vecchiaia, la colpa): una partitura densa e rigorosa, cui dà vita in modo commovente la straordinaria Yun Jeong-hie, veterana con 189 pellicole al suo attivo che qui ritorna sullo schermo dopo 16 anni di assenza e offre il suo volto, paesaggio mutevole, in ogni inquadratura.

THE THREE OF LIFE di Terrence Malick (2010)

28 Lug

Film TV: Jack, un ragazzino di undici anni, vive nel Midwest insieme ai suoi  due fratelli e ai suoi genitori. La sua esistenza gli appare piena, rotonda, incantevole nonostante i messaggi che gli giungono dai genitori amorevoli siano dissonanti: la madre gli insegna la grazia, il padre cerca invece di motivare la sua autostima e il suo individualismo. Le cose si fanno più complesse quando Jack affronterà per la prima volta la malattia, la sofferenza e la morte. Il mondo, che un tempo era per lui una cosa splendida, diventa un labirinto. La bellezza passa dal cinema: il regista, coadiuvato da Lubezski, Trumbull e Dan Glass, si avvale di ogni possibilità tecnologica e ricrea con la luce la scaturigine del mondo. Ne viene una palingenesi tanto dello Spirito quanto della Settima arte, capace persino di citare Kubrick e negarlo: se gli uomini scimmia apprendevano la violenza dal monolito, i dinosauri di Malick compiono un inedito atto di pietas ancestrale. Opera densa e inesauribile, fuori dal tempo e che copre tutto il Tempo, The Tree of Life è prodigioso fin dal coraggio di Pitt e degli altri di produrlo. È un miracolo.

WINTER’S BONE di Debra Granik (2010)

21 Lug

Film TV: La vicenda di Ree Dolly, una ragazza di sedici anni molto determinata che vive nelle Ozark Mountains – la regione montuosa tra il Missouri e l’Arkansas –  e che si occupa della madre, psichicamente sofferente, e dei due fratelli più piccoli. La situazione si complica quando scopre che la loro casa e la loro terra sono state impegnate dal padre… Un film ancorato alla propria radice letteraria (il libro omonimo di Daniel Woodrell, edito da Fanucci), capace però di trascendere la pura narrazione per estendersi a un’idea di estetica. Il freddo che diventa immagine. Il colore delle ossa che impregna l’aria (la regista Debra Granik, bravissima, viene dalla fotografia).

Daniele Torri: Bel film di montagna dove l’uomo (la donna) convive con gli animali e con essi si seleziona. L’amore per cavalli e cani non impedisce alla protagonista Ree di sparare agli scoiattoli per insegnare ai suoi cuccioli come squartarli e cucinarli. Parole come pan-cake o burro di arachidi (una in inglese e una in italiano nel doppiaggio) sono talmente di fantasia da venir utilizzate come nomi di animali o di peluches. Sulle Ozark bisogna sopravvivere al freddo come alla fame, gli esseri umani si danno la caccia come le bestie e l’unica via d’uscita (certo non di fuga) è avere i boschi dalla propria.

WHEN YOU’RE STRANGE di Tom DiCillo (2010)

12 Lug

Film TV: Nell’estate del 1965 a Venice Beach, in California, il giovane tastierista Ray Manzarek e il ventiduenne aspirante poeta Jim Morrison si incontrano. Ray resta talmente colpito da alcune liriche scritte da Jim che, seppure il ragazzo sia completamente sprovvisto di una pratica musicale, decide di coinvolgerlo nel progetto di formazione di una nuova band assieme al batterista jazz John Desmore e al chitarrista esperto di flamenco Robby Krieger. I quattro si chiameranno The Doors… Jim Morrison e soci hanno scritto la Storia della Musica con un’ispirazione che a volte aveva qualcosa di soprannaturale, sfondavano le Porte della percezione con le note e riuscirono a ispirare persino grandi “cinematografari” come Francis Ford Coppola (vi immaginate Apocalypse Now senza The End? Qui le stesse note accompagnano i coevi di Jim & Co. che cambiarono il mondo, da Martin Luther King a Jimi Hendrix). DiCillo riesce a ricordarci che quel mito è esistito davvero e che era umanissimo. Grande cinema, grande musica.

SORELLE MAI di Marco Bellocchio (2010)

16 Mag

Film TV: Sei episodi di un’unica storia, girati a Bobbio in sei anni diversi tra 1999 e il 2008,raccontano di Elena, nella sua crescita dai 5 ai 13 anni, di sua madre Sara, sorella di Giorgio, e dei loro difficili rapporti. Elena vive con le zie a Bobbio, perché la madre, attrice, è sempre in giro e ritorna quando può, così come ritorna anche il fratello per ragioni diverse. Un giorno Sara decide che Elena viva con lei a Milano, lasci così il paese e si separi dalle zie, forse definitivamente… Il nucleo familiare, la musica di Verdi, Bobbio e la Val Trebbia, Elena, il gioco fra la scena e i desideri, sono tutti elementi di un conflitto che Bellocchio filma in maniera serena ma non conciliata. È uno sconcertante cinema d’amore, quello di Marco Bellocchio. Che commuove per la sua capacità di perdersi sul corpo di Donatella Finocchiaro o nello scrutare Elena che accarezza un gatto. Sorelle Mai è un addio del passato che si offre come un’irresi­sti­bile ipotesi di futuro.

HOWL di Rob Epstein (2010)

4 Mar

Film TV: Nel 1957 si tenne un processo particolare negli USA: quello a Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, il primo autore e il secondo editore del poema Howl, ritenuto osceno. Quel processo, considerato come atto di nascita della controcultura della beat generation, viene ritratto in quest’opera da tre punti di vista: quello della ricostruzione del processo stesso, quello delle reazioni del gruppo di personalità che circondava il poeta e la rappresentazione del poema stesso, raffigurato visivamente attraverso il lavoro dell’illustratore Eric Drooker, che collaborò a più riprese con lo stesso Ginsberg. Non è biopic, ma monografia appassionata e colta, che con linguaggio chiaro e passo preciso, talvolta raggelato, mette in parallelo la questione dei diritti gay (e in generale la sessuofobia statunitense del periodo) e la libera creatività. Dal Sundance a Berlino, fino al Mix di Milano è cinema di nicchia e insieme civile. Da vedere, quindi.

GREEN ZONE di Paul Greengrass (2010)

3 Mar

Gabriele Niola: Rifiutando qualsiasi patente di indagatore delle realtà politiche Greengrass parte da fatti assodati e non scava oltre, si appoggia al libro “Imperial life in the Emerald City” di Rajiv Chandrasekaran per piegare i fatti alle esigenze del cinema spionistico e sceglie la via più difficile di tutte. Al centro della storia infatti non c’è più un superuomo come Jason Bourne ma un militare addestrato come tanti altri, animato da un senso patriottico e morale superiore a quello dei suoi colleghi che sono lì per eseguire ordini, il quale agisce fuori dagli schemi per arrivare ad un uomo che può rivelargli la verità nascosta dal governo prima di quelli che lo vogliono uccidere. Nulla di più classico e nulla di più innovativo.
Fin dalla prima sensazionale sequenza che dal micro (una riunione di loschi iracheni) subito proietta la storia nel macro (il susseguente bombardamento che di colpo illumina la notte) Green zone è cinema in mobilità mai domo, girato con il consueto stile caoticamente controllato di Greengrass. Come gli altri che prima di lui hanno portato sul grande schermo il conflitto iracheno, Greengrass vuole scendere nelle strade ed entrare nei vicoli peni di calcinacci ma diversamente da altri più che al video sceglie di appoggiarsi all’audio (una colonna sonora costante che si mischia a rumori di fondo scelti, mixati e organizzati con una precisione meticolosa per rendere la tagliente tensione della guerriglia di strada) trovando così il vero specifico filmico della nuova guerra.
Aggiornando le più classiche dinamiche del cinema d’azione americano, l’interesse del film passa in fretta dal contesto geopolitico alle frasi con le quali i personaggi si minacciano, ai colpi sparati, alla tensione degli inseguimenti (fantastico quello a tre!) e alle motivazioni che animano i comprimari, solitari quanto i protagonisti, nella loro lotta privata, sganciando così l’opera dalla contingenza attuale per proiettarla nell’Olimpo del grande cinema.

Film TV: Nel 2003, durante la prima fase dell’occupazione americana dell’Iraq, l’ufficiale Roy Miller e la sua squadra vengono incaricati di rintracciare le armi di distruzione di massa la cui presenza ha determinato l’intervento militare e che si ritiene siano nascoste nel deserto. Greengrass si conferma ottimo stratega nel bilanciare le componenti di un film che conserva negli occhi la frenesia di Black Hawk Down alimentata però da intrighi nelle stanze del potere tipici di 24. Rispetto al livore di De Palma e al furore della Bigelow, Greengrass opta per un approccio schiettamente settantesco. Viscerale e lucido, il regista tiene altissimo il tasso adrenalico che è pari solo alla sua chiarezza espositiva.

TRUE GRIT di Joel & Ethan Coen (2010)

26 Feb

Giancarlo Zappoli: È un film sul distacco, sulla perdita, sulla separazione Il Grinta. Mattie non bacerà il cadavere del padre (per quanto sollecitata) ma assisterà all’impiccagione di tre condannati due dei quali potranno esprimere il loro pentimento o la loro rabbia. Il terzo non potrà farlo: è un nativo pellerossa. La stessa Mattie però dormirà nella stanza mortuaria accanto ai cadaveri degli impiccati. Da quel momento avrà inizio un lungo percorso in cui Rooster Cogburn, detto Il Grinta, sarà una sorta di disincantato ma al contempo dolente Virgilio pronto a raccontare di sé e del suo confronto quotidiano con una morte inferta o subita. Mattie lo vedrà per la prima volta non mentre arriva in città con i malfattori catturati (come nel film del 1969) ma emergere progressivamente alla visione mentre in tribunale gli viene chiesto conto degli omicidi (a favore della Legge certo ma sempre omicidi) compiuti. Jeff Bridges è perfetto nel rendere quasi tangibile questa figura di uomo della frontiera cinematograficamente in bilico tra la classicità e lo spaghetti-western. Si lascia The Duke Wayne alle spalle e affronta un viaggio in un genere destinato a proporre, incontro dopo incontro e scontro dopo scontro, una riflessione su un modo di concepire il confronto sociale non poi troppo distante da quello in atto in questi nostri difficili tempi. Perché, non dimentichiamolo, anche il più apparentemente astratto film dei Coen morde sempre (e con grande lucidità) sul presente.

Film TV: La 14enne Mattie Ross è sulle tracce di Tom Chaney, il killer prezzolato che ha ammazzato suo padre.  I Coen mantengono la triplice prospettiva di Portis: per la prima volta scelgono una giovane protagonista, dallo zelo protestante e dal discernimento tutto democratico dell’Arkansas, i cui compagni d’avventura rappresentano lo spirito anarchico e quello repubblicano. Nel loro separarsi e ritrovarsi, accentuato rispetto al romanzo, si celebra quasi un “rimatrimonio”, a tre, fra le anime d’America. La pregnanza tematica è sviluppata con sprazzi di humour, spesso nero, incontri al limite del surreale e sottili citazioni. Se il grazioso filmetto di Hathaway era a tratti un’epica solare e altrove un’avventura disneyana, l’adattamento dei due fratelli racconta la fine del Western immergendola in atmosfere invernali e infernali, con indiani ormai dannati, orribili ferite e commercio di cadaveri. Entriamo in Il Grinta con un carrello in avanti verso una luce tenue nell’oscurità, quasi un riflesso della cabina di proiezione, e ne usciamo in un epilogo spettrale, dove le vestigia della frontiera passata sono ridotte a spettacolo di dubbio gusto o, più dignitosamente, chiuse in una bara.

THE KING’S SPEECH di Tom Hooper (2010)

12 Feb

Marzia Gandolfi: Duca di York e secondogenito di re Giorgio V, Bertie è afflitto dall’infanzia da una grave forma di balbuzie che gli aliena la considerazione del padre, il favore della corte e l’affetto del popolo inglese. Figlio di un padre anaffettivo e padre affettuoso di Elisabetta (futura Elisabetta II) e Margaret, Bertie è costretto suo malgrado a parlare in pubblico e dentro i microfoni della radio, medium di successo degli anni Trenta. Dopo aver raccontato la storia della Rivoluzione americana in nove ore, dentro una mini-serie e attraverso gli occhi del secondo presidente degli States, Tom Hooper si concentra sul vissuto interno del protagonista, rivelando le conseguenze emotive del disagio nel parlato ai tempi della radio e in assenza del visivo. Il discorso del re non si limita però a drammatizzare la stagione di vita più rilevante del nobile York e relaziona un profilo biografico di verità con un contesto storico drammatico e dentro l’Europa dei totalitarismi, prossima alle intemperanze strumentali e propagandistiche di Adolf Hitler. A guadagnare la fluenza e a prendersi la parola è il ‘regale’ protagonista di Colin Firth, impeccabile nell’articolare legato, solenne nella riproposta plastico-fisica del suo sovrano e appropriato nell’interpretazione di un re che ‘ingessa’ emozioni e corporeità nel rispetto rigoroso della disciplina. Dietro al ‘re’ c’è l’incanto eccentrico di Geoffrey Rush, portatore di una “luccicanza” che brilla, rivelando la bellezza della musica (Shine) o quella di un uomo finalmente libero dalla paura di comunicare. Lunga vita al re (e al suo garbato precettore dell’eloquio).


Film TV: La storia di Re Giorgio VI d’Inghilterra, padre di Elisabetta II, che salì con riluttanza al trono dopo l’abdicazione del fratello. Il discorso del Re sfrutta il MacGuffin psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra. E dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler (Tucker di Francis Ford Coppola), che ha sofferto di balbuzie, e del talentuoso regista Tom Hooper, figlio di madre australiana e padre inglese, pluripremiato per la serie in costume John Adams, con la quale ha perfezionato un’economia di messa in scena e drammaturgia.