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MELANCHOLIA di Lars vonTrier

23 Ott

 Esempio altissimo di opera visceralmente espressionista ed esistenzialista di Giulio Sangiorgio:

Lars von Trier mette in forma, nuovamente, dopo Antichrist, la sua melanconia: per Freud lutto eterno, impossibile da elaborare. Rivolto contro se stessi. E lo fa con un’opera che annuncia l’Apocalisse sin dalle prime inquadrature, tableaux vivants che sono un memento mori di impressionante forza pittorica, sulle note del Tristano e Isotta, un riassunto di ciò che accadrà. Ovvero un kammerspiel stilizzato, sfrontato e dolorosissimo, se si è disposti ad accettare l’idea di cinema dell’autore. Se non si chiede al cinema di adeguarsi alla propria visione, se gli si concede di dare fastidio. Perché i personaggi sono funzioni di un discorso prestabilito. Ma lo sono sempre. Qui semplicemente, lo sono sfacciatamente, sino all’autolesionismo. Perché qui non si vuole la giusta misura del realismo: l‘umanità straborda nel ridicolo, nel grottesco, nell’isteria.

È il quadro complessivo a pulsare, ciò che importa è il carattere affettivo del film. Perché c’è più verità nell’essere così oltre di queste figure che in una miriade di sceneggiature armoniose. Perché qui siamo in uno dei rari territori dove la consapevolezza del cinema contemporaneo (e dello stesso Von Trier) si dibatte, inesausta, in una esaltante sfida contro se stessa. Perché Melancholia travolge i limiti che si pone (il finale ineluttabile, il montaggio cubista, i personaggi caricaturali, l’abituale schema antiborghese). Perché questo è un esempio altissimo di opera visceralmente espressionista ed esistenzialista, che violenta l’ironia imperturbabile del Cinema Post Tutto e lotta per dare forma a un sentimento.

da Film TV n.42/2011

DANCER IN THE DARK di Lars von Trier (2000)

16 Giu

Film TV: Selma, una giovane cecoslovacca emigrata in America e con la passione del musical, fa l’operaia alla catena di montaggio, vive in uno squallido sobborgo di motorhomes, sta diventando cieca e mette via ogni centesimo per far operare il suo bambino e salvarlo dalla cecità che gli ha trasmesso geneticamente mettendolo al mondo. Ogni rumore, o concatenazione di rumori, lo stridio di una macchina, le voci e le “entrate” che si accavallano in un processo, il battito di un treno sulle rotaie o quello sordo e terrorizzato di un cuore, tutto serve a Selma per creare davanti a ai suoi e ai nostri occhi il sogno di una vita cinematografica, da “Tutti insieme appassionatamente” (che fa da “guida”al film), a “Sette spose per sette fratelli“, dal modernismo alla Bob Fosse al vitalismo del musical sovietico anni ’50, all’omaggio vivente a Jacques Demy e alle sue “demoiselles” che è Catherine Deneuve, operaia tenerissima, dalla faccia pulita, quasi ringiovanita. Nel film (anche il titolo è una citazione minnelliana), ci sono un dolore e un amore enormi, intrecciati appassionatamente nella più impossibile, ma per alcuni anche la più quotidiana delle finzioni: sognare la perfezione del cinema per resistere all’orrore della vita.

 

EPIDEMIC di Lars von Trier (1988)

23 Mag

Film TV: Un regista e uno sceneggiatore lavorano alla scrittura di un film, ma la sceneggiatura viene cancellata per errore. In pochi giorni i due devono così riscriverne un’altra che tratta della diffusione di una terribile epidemia in Europa. Ma il virus comincia a propagarsi veramente, in un’alternanza di fiction e realtà.

DIREKTØREN FOR DET HELE di Lars von Trier (2006)

20 Apr

Film TV: Il proprietario di una società è intenzionato a vendere tutto. Ma quando i potenziali acquirenti vogliono definire l’operazione con il presidente della società, si scopre che quest’ultimo in realtà non esiste realmente. Il proprietario decide allora di ingaggiare un attore fallito per interpretarne il ruolo… Una commedia molto divertente sugli equivoci, gli inganni, i soprusi, le tensioni di un’azienda, sull’odiata Islanda (ricca e buzzurra) e la decadente Danimarca, sul teatro, sul cinema e sui personaggi che tutti (non solo l’attore protagonista) siamo costretti a impersonare giorno dopo giorno e che, giorno dopo giorno, divorano la nostra autentica personalità. Gli interpreti sono straordinari, i dialoghi in punta di penna, laconici, surreali.

Giancarlo Zappoli: Lars Von Trier si prende una (apparente) vacanza dal dramma della trilogia ‘americana’ per confezionare una commedia di cui si diverte a rivelare le scelte di scrittura intervenendo ogni tanto come voce off. In realtà aveva già dato prova di saper volgere in sorriso la crudeltà sadica del suo sguardo sul mondo in Idioti. Qui però, autoliberatosi dai vincoli del Dogma, può dare ancor più libero sfogo a una vena satirica che, come sempre, non riesce a contenere il suo strabordante ego. A questo punto scatta la dinamica consueta: o si apprezza o si detesta il ‘marcio’ che Lars trova non solo in Danimarca ma nel nostro mondo. La falsità dei rapporti di lavoro, il profitto che calpesta qualsiasi relazione, il bisogno di autoaffermazione che scavalca ogni concetto di equità. L’etica è una parola cancellata dal vocabolario e se il ruvido businessman islandese non finge neppure di averla mai sentita nominare a poco servono i machiavellismi di chi vuol negare a se stesso la propria amoralità.

Morandini: Ravn vuol vendere la sua azienda di informatica, ma ha un problema: da quando l’ha costituita, si è inventato un falso capo irraggiungibile sul quale scaricare la responsabilità di decisioni impopolari. Poiché i futuri compratori islandesi insistono nel voler negoziare il trapasso col capo in persona, assolda per impersonarlo un attore… Giunto ai 50 anni e deciso a “rivitalizzarsi”, von Trier ha scritto e diretto per la prima volta una commedia che è una commedia nella commedia. Molto parlata. Lo spunto è ingegnoso e allude alla realtà, a una strategia padronale che ognuno di noi conosce. Qua e là il film è faticoso da seguire, e persino sgradevole, almeno agli occhi. Nei titoli di testa il nome del direttore della fotografia è sostituito da un dispositivo tecnico: AUTOMAVISION. Siamo o no nel campo dell’informatica? Von Trier dichiara che non era lui a tenere il controllo, ma il computer. È difficile credergli; il “grande capo”, quello vero, è il regista. C’è da divertirsi, comunque, a sentire gli islandesi insultare i danesi che li hanno governati per quattro secoli.

MEDEA di Lars von Trier (1987)

20 Apr

Morandini: Von Trier attinge alla tragedia di Euripide (431 a.C.) partendo da un treatment di 46 cartelle del compatriota Dreyer, fedele al tema della donna abbandonata, vittima dell’ambizione e della viltà dell’uomo. Ambientata l’azione in un imprecisato Medio Evo scandinavo dalle tinte sfumate, von Trier affronta la questione centrale: come può una madre uccidere i propri figli? Medea non lo fa per vendetta né per esplicita ribellione al giogo maschile, ma per salvarli da un futuro incerto, probabilmente infelice. Nell’intento di rendere attuale il dramma, togliendolo dal suo contesto storico, von Trier elimina il ricorso agli dei o alla nozione di destino, trasferendo l’azione su un piano psicologico: è Giasone che indirettamente obbliga la ripudiata Medea a uccidere i bambini.

Film TV: A Corinto, nel quinto secolo a.C., Medea vive con il marito Giasone e i due figli. La loro esistenza viene sconvolta da Creonte, re della città, che vuole dare in sposa a Giasone la figlia Creusa. Di fronte alla possibilità di succedere al trono, l’uomo decide di abbandonare la propria famiglia a un solitario destino, ma Medea è pronta a tutto per dissuaderlo dal prendere questa decisione. Girato nel 1988 su commissione dell’emittente di stato danese, e tutt’ora inedito in Italia, Medea è un libero adattamento del trattamento che il regista danese Carl Theodor Dreyer scrisse quindici anni prima, come ossatura di un film che non riuscì mai a girare a causa della mancanza di sostegno economico.

ANTICHRIST di Lars von Trier (2009)

21 Mar

Giancarlo Zappoli: Un uomo, una donna. Un marito e una moglie che fanno l’amore con grande trasporto. Inizia così un percorso che condurrà entrambi in una casa nel bosco dove la tragedia è in agguato.
Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte/ e che sospiri la libertà” È con questi versi di Handel che si apre e chiude quello che Lars Von Trier afferma essere il più importante film di tutta la sua carriera. Noi diremmo di più: si tratta del film in cui il regista danese gioca finalmente con se stesso a carte totalmente scoperte. Ciò che veramente pensa delle complesse e comunque misteriose dinamiche che stanno alla base del rapporto uomo/donna viene finalmente depurato dalle tematiche sociali che in tutti gli altri film (perlomeno a partire da Europa) tentavano, invero senza riuscirci del tutto, di occultarlo. È nudo Von Trier questa volta. Non si limita a portare i suoi due attori all’estremo con scene che faranno abbassare lo sguardo a più di uno spettatore ma va oltre.
L’idea del film nasce da un lungo periodo di depressione e finisce con il costituire una sorta di tentativo di terapia su grande schermo. I detrattori del regista danese hanno ora una freccia in più al loro arco la cui punta è stata opportunamente avvelenata dallo stesso Von Trier. Perchè questo è senza dubbio il suo film più squilibrato e al contempo più ambiguamente sincero. L’ossimoro è funzionale all’intera filmografia del regista ma torna ad esserlo, con maggior forza, anche in questa occasione. Perchè qui viene portato all’ennesima potenza il terrore che Von Trier prova verso il femminile anche se poi tenta di occultarlo con la pretesa di aver mostrato un maschio che pretende di porre sotto totale controllo la propria compagna subendone le conseguenze. La Natura (vedi caso nome femminile al punto che la si definisce solitamente Madre) è nella sua visione una creatura di Satana e la donna finisce con l’esserne la più diretta e pericolosa espressione. Dafoe sullo schermo altri non è che un Von Trier più giovane che soccombe, dopo aver cercato la strada della razionalizzazione, alla ineludibile irrazionalità totale del femminino che ha una sola strada per non nuocere: negarsi e negare in modo definitivo la possibilità del piacere. Mai come in questa occasione è emerso il lato più oscuro (qualcuno dirà “malato”) di questo regista che forse grazie proprio ad Handel ci confessa il suo tormento: la sua è la dura sorte di chi soccombe quotidianamente a quella che sente come la gabbia di un corpo desiderante il sesso femminile. Con questo harakiri cinematografico ha inizio il tentativo di liberazione.

DIREKTØREN FOR DET HELE di Lars von Trier

19 Nov

Cinema iper-parlato e iper-cinetico Carlo Valeri da Sentieri selvaggi

Per ogni suo  film il Von Trier-autore ne ha sempre una nuova da inventarsi. Stavolta dopo realismi dogmatici, contaminazioni musicali e scenografie “invisibili” allestite in studi teatrali, tocca all’ Automavision, sistema con cui una volta scelta la posizione della cinepresa spetta poi a un computer programmato fornire una lista di possibilità da applicare (panoramiche, obiettivo, messa in quadro, filtraggio sonoro, ecc.). Quasi a sancire la definitiva (?) perdita di controllo da parte dell’autore sulla sua opera. Le idee del cineasta danese continuano a essere minate da un esplicito disprezzo nei confronti della messa in scena classica e da una costante assenza di ogni possibile forma di trasparenza tra stilizzazione e narrato. Detto questo il “nuovo” Lars Von Trier è una commedia a sprazzi molto divertente, che accantona le tragiche eroine e i temi alti in favore di uno sperimentalismo ludico da semplice operazione ricreativa (come già accadeva ne Le cinque variazioni). Protagonista de Il grande capo è un attore fallito a cui viene chiesto di interpretare per una settimana nella vita reale l’inesistente proprietario di un’azienda che sta per essere venduta. Questo perché il vero proprietario non ha nessuna voglia di assumersi la responsabilità dei futuri licenziamenti. Toccherà quindi al finto “grande capo” fare i conti con gli scrupoli morali e le dure leggi del mondo del lavoro.

Cinema iper-parlato e iper-cinetico, sconvolto dal punto di vista irrazionale, dove il decentramento della messa in quadro della nuova tecnica “brevettata” dal suo autore distrugge il reale per farsi puzzle schizofrenico di una realtà teatralizzata, senza punti di riferimento precisi che non siano caos e sberleffo automatizzato. Eppure c’è un elemento che rende Il grande capo, operazione più suggestiva rispetto ai soliti lavori del cineasta danese: risiede nella assuefazione addormentata che l’oltranzismo stilistico impone a un corpo-sguardo (lo spettatore in sala) non più violentato dalle maree digitali in stile dogma. Stavolta davvero lo sperimentalismo di Von Trier è fine a se stesso, non produce ambigui ricatti vouyeuristici ne facili infatuazioni estetico-autoriali. La camera se ne sta per conto suo, fa di tutto per allontanarsi dalla storia e dai personaggi che fanno il film, per poi alla fine venirne clamorosamente soggiogata.

E allora il nuovo Von Trier potrebbe anche rivelarsi sorprendente documento sulla vacuità percettiva che la tecnica (non) impone all’occhio. Insieme fumoso di angolazioni innocue, che si allontanano dall’oggetto filmato senza creare strappi, abituando lo spettatore a una frammentarietà che sotto traccia continua a narrare in linea, regia superflua sempre al servizio di un canovaccio scritto, quello sì irreparabilmente dogmatico. Sperimentazione non più riconoscibile e riconosciuta. Tra l’immagine e la parola vince la seconda, scrittura e teatro tornano a dettar legge. Punto e a capo. Cinema chiuso…. all’inverso.