analisi di Alessandra Cavisi di C’era una volta il cinema
: se non hai visto il film, ti consiglio di rimandare la lettura a dopo la visione
Uno stimato criminologo rimasto in città dopo la partenza di moglie e figli per le vacanze, passa una notte molto particolare: fermatosi ad ammirare il ritratto di una donna, se la ritrova alle sue spalle e si fa convincere ad uscire a prendere qualcosa da bere e poi ad andare nel suo appartamento. Qui l’uomo verrà assalito dall’amante dell’avvenente signorina e per difendersi sarà costretto a pugnalarlo con delle forbici. Nascondere il cadavere e non attirare i sospetti della polizia sarà molto difficile, soprattutto quando un terzo personaggio farà la sua comparsa per ricattare i due complici dell’omicidio.
Nonostante appartenga al periodo americano del regista tedesco Fritz Lang, “La donna del ritratto” porta con sé molto dell’espressionismo che contrassegna l’arte cinematografica del suo paese d’origine. Attraversato da atmosfere surreali e oniriche, accompagnate da una splendida fotografia che gioca abilmente con le luci e le ombre e da un’ambientazione prevalentemente notturna, “La donna del ritratto” è un grande noir che coinvolge e affascina non solo per le caratteristiche succitate, ma anche per la caratterizzazione dei personaggi, soprattutto il protagonista magistralmente interpretato da Edward G. Robinson, e per il dilemma etico che lo contrassegna. Come rapportarsi alla decisione presa dal professore di sbarazzarsi del corpo e continuare come se niente fosse? E’ possibile condannare totalmente questo uomo comune, nel quale lo spettatore può facilmente immedesimarsi, per un omicidio commesso in preda al terrore di perdere la propria vita? Insomma, non è facile rapportarsi eticamente con quanto viene narrato nella pellicola, visto che man mano che il tempo passa e che gli indizi vengono a galla, i due complici sconosciuti scendono sempre più negli “inferi”, anche a causa di uno spregevole ricattatore nei confronti del quale non ci sarà altro da fare se non continuare ad uccidere… Laddove sembra che il tutto stia per terminare in maniera beffarda, punitiva e moralistica nei confronti dell’atteggiamento tenuto dal protagonista, Lang ribalta completamente le carte in tavola, forse spinto dalla produzione a non proporre un finale così cinico e crudele. Il risultato, seppur apparentemente imposto, è quello non solo di aver evitato il pericolo di demonizzazione del male a tutti i costi, ma, paradossalmente, di mostrare quanto il male a volte possa avere un fascino tutto particolare, tanto da indurre l’uomo a sognarlo come un’avventura appassionante, seppur pericolosa.
Parlare di sogno, ovviamente, non è un caso, dato che sin dall’inizio con una strizzatina d’occhio di classe il regista ci regala un’importante inquadratura con il protagonista che parla al suo uditorio e la lavagna alle spalle sulla quale campeggia il nome di Freud. Ed è proprio la coscienza dell’uomo comune messa a contatto con le aspirazioni più recondite ad essere raccontata in questo film. E’ da quando la donna si avvicina quasi sinistramente al protagonista, comparendo come un fantasma riflessa sulla vetrina nella quale è esposto il suo ritratto, che ci accorgiamo dell’estrema straordinarietà degli eventi che stanno per susseguirsi sullo schermo. A partire dal fatto che la bellissima donna si interessi così tanto ad un uomo di mezza età non così avvenente, passando per l’estrema sbadataggine di un criminologo nel condurre i sospetti dell’amico ispettore di polizia su di lui (mostra apertamente il graffio che si è fatto sul luogo in cui ha nascosto il cadavere poi ritrovato, accompagnando l’amico in ricognizione sul luogo del ritrovamento lo precede dirigendosi direttamente sul punto in cui aveva lasciato il cadavere, e via dicendo), arrivando alla crudele decisione di ammazzare anche il ricattatore, proveniente da un uomo prima di allora mite e onesto.
E’ inutile, allora, indignarsi per il finale solo apparentemente deludente, visto che per tutto il film Lang non fa altro che condurci per mano verso una determinata interpretazione dei fatti. Inoltre la soluzione narrativa da lui adottata è raccontata in un sublime momento registico che, senza stacco di montaggio alcuno, ci porta dalla condizione onirica del protagonista al ritorno vero e proprio alla realtà.
“La donna del ritratto” è uno dei più classici e indimenticabili esponenti del cinema noir che si fa apprezzare per tutti gli aspetti succitati e si fa ricordare anche con un sorriso grazie alla simpatica ironia che accompagna le battute finali del film, quando il protagonista, ancora una volta fermo ad ammirare il ritratto che ha scatenato il tutto, viene avvicinato da un’altra bella donna, ma fugge via a gambe levate, invocando quella saggezza che per tutto il film, invece l’aveva abbandonato.
Saggezza che, invece, contraddistingue l’abile mano registica di un magnifico Fritz Lang qui ad una delle sue prove più suggestive e in qualche modo visionarie.