Daniele Torri: Immagini che scorrono a pelo d’acqua alternate a sequenze in esterni o cavallo dell’ingresso di abitazioni di fortuna, sempre in balia delle perturbazioni. Ci si immerge una sola volta, l’interno è acquatico ma soprattutto umano, ma la purificazione interiore (che equivarrebbe ad un peccato esteriore) non si completa e sull’imbarcazione che lascia una riva sempre con la prospettiva di ri-approdarvi, sta l’essenza di un film molto umano al di là dell’organizzazione civile di una società, quasi lontana da quella occidentale. Vedere su un monitor scene di mondi in cui il monitor non è previsto, instaura una trasfigurazione alla quale è necessario adeguarsi. La sequenza in cui Kabir e sua cognata Kabila dialogano camminando ed alternando la loro posizione rispetto al sole, controcampo ideale rispetto allo spettatore (quindi angolazione illuminata), è impagabile.
enrico ghezzi introducing FuoriOrario: (…) forse è una mia fissazione, legata all’importanza del fiume, del passare del fiume, del compensarsi nel fiume sia del mondo dello stratificato, del morto, dell’annegato come del sorgente, del rigenerante, del mai uguale, mai lo stesso punto; benché il fiume poi sia lo stesso. Quindi proprio un’idea di cinema: di mutevolezza continua e nello stesso tempo sempre la stessa cosa. Il battelliere del fiume Padma, ci porta vicinissimo a questa sostanza del fiume; non come esplorazione di un altro elemento, il confronto e quindi la lotta fiammeggiante tra elementi diversi: l’aria, l’acqua, la storia, il navigare, lo scivolare, l’attraversare l’acqua, l’usarla come barriera o farne metafora, oppure davvero lo sparire in essa ed essere inghiottiti dal fiume. Invece il fiume è davvero una sorta di frame perfetto; è il cinema in quel frame che è sempre lo stesso eternato e poi replicato all’infinito dalla televisione. E poi invece questa univocità, questa permanenza del frame, è quella che permette la pluralità, quella che mostra una sorta di desiderio. Naturalmente sappiamo che tutto questo è finto, ogni film è finto, è voluto, ogni film sa bene che la macchina da presa è stata portata lì da un regista o da un produttore o da un attore che vuol fare un reportage. E’ messa lì, quindi c’è già un atto di finzione operata dall’uomo della macchina da presa, anche se quest’uomo fosse un angelo, un diavolo, un extraterrestre o un burattino. In ogni caso, filmare un fiume (ricordo un film limite ad esempio di Jean Renoir) perché il fiume davvero o ci si butta rischiando l’annegamento per fare l’amore oppure se ne percorrono le rapide e riuscire a sentirlo solo come presenza, come staticità (che è una scommessa ad esempio del River indiano di Renoir) , ingaggiare una battaglia, un braccio di ferro con il fiume sullo schermo, è davvero provare a giocare questa partita col cinema stesso, con lo schermo stesso, col passaggio dentro di questa corrente continua di immagini di cui invece il battelliere è il regista. Il regista è solo il battelliere, non è colui che la determina apparentemente con un gesto di imperio, di conoscenza, di preveggenza, NO. E’ proprio il battelliere che attraversa, che aiuta qualche destino. Il regista diventa strumento di un amore del proprio destino da parte di personaggi, da parte del battelliere, da parte del regista stesso e da parte del fiume; cioè del senso stesso mobile.
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