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APRILE di Nanni Moretti (1998)

23 Mag

Morandini: Film di famiglia e diario intimo, comincia il 28 marzo 1994 (vittoria elettorale della destra berlusconiana), termina nell’agosto 1997 quando l’autore decide di tornare al cinema di finzione con un musical, e fa perno sul 18 aprile 1996 quando gli nasce il figlio Pietro, mentre, vinte le elezioni, il centrosinistra dell’Ulivo va al governo. È un film che dice e riferisce molto, insegna moltissimo, suggerisce poco, non racconta quasi mai. A differenza di Caro diario, il mix di privato e pubblico non è riuscito. Sul primo versante si limita a microesercizi autocritici di umorismo sulle fisime di padre attardato; sul secondo il resoconto è fiacco e smunto, se si tolgono pochi momenti (il corteo del 25 aprile 1994 a Milano sotto la pioggia, l’arrivo degli albanesi a Brindisi) e la bella invenzione del grande lenzuolo di ritagli di giornale. Ma sono lucciole nel grigiore. È un film regredito e regressivo, frutto di un blocco creativo dell’autore.

Film TV: Non c’entra, però c’entra. I dirigenti della nostra sinistra, quand’erano giovani nella FGCI, interrompevano tutto per guardare Fonzie in “Happy Days“. Cosa c’entra con la loro formazione politica? Non c’entra. Però, dice Nanni Moretti con un sorriso appena accennato, c’entra. Nulla c’entra e tutto c’entra (dalle copertine dell’Espresso alla televisione), in quello che siamo o siamo diventati. Dove, per una volta, una grande vittoria privata (diventare genitori) può corrispondere a un’ipotesi di vittoria pubblica. Film in souplesse, dove i dubbi, i tentennamenti, le ansie di un autore-genitore-cittadino hanno preso il posto delle rabbie urlate e del dolore sordo di “Palombella rossa” e “Caro diario“.

THE TRUMAN SHOW di Peter Weir (1998)

11 Mar

Morandini:  I primi trent’anni nella vita incolore di Truman Burbank sono stati lisci come l’olio nella tranquilla e agiata comunità suburbana di Seahaven. Un giorno, però… La sceneggiatura magistrale del giovane neozelandese Andrew Niccol (Gattaca) abbina gli ingredienti di Capra e Sturges con le invenzioni più angosciose di Orwell, Sheckley, Dick, secondata dalla regia invisibile di Weir che fa “convivere l’originalità delle idee e l’obbligo di tradurle in un linguaggio accessibile a tutti” (Paolo Cherchi Usai). L’incubo più ironico del cinema di fine secolo è un’altra espressione della Grande Paura Paranoica degli USA: è la realizzazione del Panopticon, il dispositivo carcerario ideato dal filosofo inglese Jeremy Bentham alla fine del Settecento: chi vi soggiorna può essere osservato, ma non può osservare. Definito il più costoso (80 milioni di dollari) e popolare film d’autore mai realizzato a Hollywood. Tre nomination, nemmeno un Oscar. Il tema fu anticipato da Paul Bartel con Secret Cinema (1968), mediometraggio in bianco e nero.

Film TV: Seaheaven, la cittadina dove Truman abita è in realtà un gigantesco teatro di posa. Una sintesi di alcune delle più suggestive ipotesi socio-apocalittico-post-industriali del cinema e della letteratura di fantascienza (o quasi), da Sheckley a “La città magica” di Wellman alle amare antiutopie di Capra. Weir e lo sceneggiatore Andrew Niccol costruiscono un apologo bello e ricco, che sfugge alla trappole della retorica, trasformando il déjà-vu in uno specchio inquietante del nostro immaginario. Un film solidissimo pieno di idee, autoironia, consapevolezza, dove Jim Carrey ritrova l’imbarazzo spaesato di James Stewart.

SAVING PRIVATE RYAN di Steven Spielberg (1998)

4 Mar

Morandini: Il generale George Marshall, comandante supremo dell’armata angloamericana, apprende che la famiglia Ryan dell’Iowa ha già perduto tre figli e che un quarto fratello, James Francis Ryan, è stato paracadutato in Normandia oltre le linee nemiche. Dà ordine che sia ritrovato e rimandato a casa. L’incarico è affidato al cap. Miller che, con sei uomini e un interprete, parte alla sua ricerca. Dramma bellico in 3 atti e una cornice. Primo atto: lo sbarco in Normandia, la guerra come carneficina e caos (i primi 24 minuti, fin troppo acclamati: da vedere, comunque, e da sentire); Secondo atto: la ricerca di Ryan: apparentemente convenzionale e già vista, ma ricca di problemi e di domande senza risposta; Terzo atto: la battaglia nel paesino di Ramelle per salvare Ryan e tenere un ponte: un compendio del war film made in USA che pone il film sotto il segno di una sospetta ridondanza, rivelata anche dal ricorso insistito alle riprese “a spalla” e agli effetti speciali. Film di forti impatti e molte bellezze, ma anche di numerosi stereotipi, interamente dentro la prassi e la retorica di Hollywood. I tedeschi sono nemici e la Francia è vuota. “La memoria diventa così, più che un’occasione per riflettere, per parlare di storia e di etica, un argomento nostalgico di propaganda” (G. Cremonini). Le grigie Stelle & Strisce che sventolano all’inizio e alla fine sono una citazione di una foto di Mapplethorpe.

Film TV: Il 6 giugno del 1944 i soldati americani comandati dal capitano John Miller si stanno preparando allo sbarco in Normandia. Nel corso dello sbarco il capitano Miller riceve l’ordine di portare il suo drappello di soldati oltre le linee nemiche per trovare e salvare il soldato Ryan, l’unico sopravvissuto di quattro fratelli. Sono tanti film di guerra, sviluppati uno dentro l’altro per rendere la paura, l’odio, la fratellanza, il nulla: la durezza laconica di Fuller, il barocco insanguinato di Aldrich, la ferocia irridente di Kubrick, la dolente pulizia grafica di Ford. Non è il trionfalismo de “Il giorno più lungo“, cancellato da paura e dubbio. Ma il lavoro sporco del soldato semplice va fatto. Cinque premi Oscar: regia, fotografia (Janusz Kaminski), montaggio (Michael Kahn), suono ed effetti sonori.

FUOCHINO di Carlotta Cerquetti (1998)

5 Feb

Daniele Torri: Una sigaretta che appicca un incendio subito domato dalla paura di abbandonarsi, di concedersi, di bruciarsi. Si consuma alcool (forse) per dimenticare, ma basta un breve incontro a dileguarne i fumi. E mentre Angela nel film non sa che fare, si riscatta in colonna sonora con la bellissima I fall in love too easily

THE BIG LEBOWSKI di Joel & Ethan Coen (1998)

9 Gen

Morandini: Riassumere questo film nichilista ambientato a Los Angeles nel 1991 che rotola, ruzzola, rimbalza come una palla da bowling è difficile quasi quanto Il grande sonno di Chandler-Hawks. Imperniato su un errore di identità e un sequestro di persona, ha per protagonista il barbuto in calzoncini corti Jeff Lebowski detto il Drugo (pessima traduzione dell’originale Dude), vecchio ragazzo degli anni ’70, uno degli estensori del Manifesto (1962) di Port Huron, fedele alle amicizie e alle proprie idee, disincantato osservatore della putredine del mondo, ma deciso a fare la cosa giusta. Manca un filo forte a legare questa storia contorta, ma c’è un’assortita galleria di personaggi, attori bravissimi, talvolta irresistibili, ricchezza di invenzioni, una ghiotta sequenza onirica, intelligenti e divertenti dimostrazioni di cinema concettuale: “è come una grande stanza mirabolante di quel museo-galleria degli sfigati e bizzarri del mondo in cui viviamo e che abbiamo voluto come è” (G. Fofi).

Film TV: Due sicari irrompono nell’appartamento di Jeff Lebowski credendo di avere a che fare con l’omonimo e famoso miliardario, peccato che Dude, così lo chiamano gli amici, sia disoccupato, senza pensieri e totalmente immerso nel mito degli anni Settanta. Straordinario racconto surreale, dove tutto finisce per apparire grottesco, dove non esistono traumi o storie passate per i quali valga la pena di agitarsi. Bellissimo rimescolamento visionario (dalla soggettiva rotolante di una palla da bowling a un sogno musicale tra Busby Berkeley e Ken Russell, al cameo di un mitico Turturro), non dimostra solo quanto siano bravi i Coen, ma anche quanto immersi nella realtà di oggi, dove in fondo campare in uno stupore tranquillo potrebbe essere la formula della sopravvivenza (almeno per i “sopravvissuti”).

BACI E ABBRACCI di Paolo Virzì (1998)

9 Dic

Giancarlo Zappoli: Per riuscire a salvare il bilancio di un allevamento di struzzi che non sta dando gli esiti sperati, una famiglia toscana invita a cena per la vigilia di Natale l’ultimo fidanzato della sorella, assessore regionale dell’Ulivo e possibile procacciatore di finanziamenti pubblici. Virzì, accusato di ‘buonismo’ per Ovosodo aggiunge un po’ di acido ed è convinto che i jump cut (eliminazioni di fotogrammi nella sequenza) facciano autore. Il professionismo non manca ma la zampata vera sta nella caratterizzazione del nonno rincoglionito che alla tv guarda solo incontri di biliardo.

Morandini: Miscela di commedia sociale, fiaba e pochade e aggiornamento in chiave di allegria sciagurata di quel genere antico che è il racconto di Natale, è la 4ª e migliore commedia di P. Virzì, ormai affermato continuatore della commedia di costume degli anni ’60 dai retrogusti amari. Con l’abituale collaborazione in sceneggiatura di Francesco Bruni, conferma la capacità di raccontare il disagio antropologico-culturale della presente società italiana, il colorito e preciso lavoro sui personaggi (con attori toscani in gran parte non professionisti) seguiti da vicino da una cinepresa mobile, l’abilità nel descrivere un ambiente provinciale senza scadere nel bozzettismo folcloristico, il sapiente equilibrio tra l’acre e il tenero, l’affetto e la lucidità con qualche caduta di stile (la sequenza onirica) e contrappunti sfocati (i rapper). Fa macchia nella toscaneria del contesto il napoletano Francesco Paolantoni in un personaggio che ha il suo archetipo nel gogoliano Chlestakov di L’ispettore generale (1836).

Film TV: Ci sono tre ex operai di Livorno che con l’aiuto dei familiari hanno messo in piedi un allevamento di struzzi in un casale mezzo abbandonato. Il problema è che Mario viene scambiato una specie di “salvatore della patria”. Paolo Virzì tiene sottotono la commedia, senza mai forzare i possibili sviluppi drammatici. Sta attento a non trasformare i personaggi in macchiette e a cogliere certe sfumature silenziose e inquietanti. L’insieme è spontaneo, vitale, misurato.