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L’ANGLAISE ET LE DUC di Eric Rohmer (2001)

15 Set

Film TV: Il libro diario della nobildonna Grace Elliott, amante del principe di Galles, il futuro re Giorgio IV e del principe Filippo, duca di Orléans, è la cronaca delle sue giornate e della sua vita a partire dal 1790. Eric Rohmer aderisce al suo racconto e ci regala una straordinaria lezione tecnologica. Utilizza il digitale per inventare, attraverso alcuni tableaux, la cornice scenografica dell’epoca e una prospettiva dello sguardo. Niente travestimenti del presente né esterni da studio tradizionale. Il dispositivo di ripresa si abbina in modo magistrale alla passione teorica per un cinema lineare, “frontale”, con la macchina da presa fissa o quasi, fiducioso negli attori e nell’immanenza delle immagini (magnifiche). Esempio sublime di nuovo cinema griffithiano. I discorsi come lunghissime didascalie. Gli interni come gusci per vivere nella compostezza teatrale il terremoto romanzesco della Storia. Terzo film in costume di Eric Rohmer, dopo “La marchesa von…” e “Perceval”.

Morandini: La rivoluzione francese rievocata attraverso le peripezie personali dell’inglese Grace Elliott, divenuta nobile col matrimonio ed ex amante del duca Filippo d’Orléans. Terzo film in costume del vecchio Rohmer, basato sul Diario della mia vita sotto la Rivoluzione Francese di Lady Grace Dalrymple Elliott, girato con videocamere digitali (fotografia: Diane Baratier), dopo aver chiesto al pittore J.-B. Marot di dipingere, ispirandosi in parte ai disegni di J.L. David, 35 vedute della Parigi del Settecento rielaborate con la tecnologia digitale, dotate di profondità e animate. Film di multiple attese di morte, non privo di suspense (l’esecuzione di re Luigi XVI spiata dall’alto col cannocchiale), impregnato di una tragicità travestita da leggerezza elegante, è raccontato con l’ottica parziale, soggettiva e ambigua della protagonista, creando non pochi imbarazzi nella critica e negli spettatori di sinistra: ricorda a tutti che la Ragione può generare il Terrore. Più che pessimista, è un film sull’atrocità della Storia, ma anche una storia di un amore che si trasforma in pietà e una riflessione sulle convenzioni della visione e sui rapporti tra vero e falso.

L’UOMO IN PIÚ di Paolo Sorrentino (2001)

23 Mag

Giancarlo Zappoli: Napoli, anni ’80. Tony è un cantante all’apice del successo. Sprezzante e apparentemente sicuro di sé, ma cocainomane incallito e con la morte del fratello sulla coscienza. Antonio Pisapia è uno stopper integro che non si presta ai trucchi del calcio scommesse. Film interessante e ispirato a due personaggi reali: il cantautore Califano e il calciatore Di Bartolomei. Si svolge i una Napoli diversa, spietata e cinica senza mai essere folkloristica.

Film TV:  Antonio Pisapia, in arte Tony, è un “crooner” partenopeo dalla voce seducente, artista da balera conteso dalle donne, coccolato dai manager e rispettato dai pusher. Antonio Pisapia è invece uno stopper di classe e – dopo un grave infortunio – un allenatore dilettante ma geniale, inventore di un modulo alla Sacchi. Per il suo lungometraggio d’esordio, Sorrentino sceglie un pedinamento intenso, entra nei personaggi, li assale con uno sguardo partecipe e lascia che si sciolgano nel dramma: da brivido il monologo di Servillo in Tv.

Morandini: Napoli, 1980 e 1984: vite parallele di due Antonio Pisapia. Film critico sugli ambienti della canzone e del calcio, ma non predicatorio: l’amarezza prevale sull’indignazione. Conta soprattutto come ritratto di due personaggi che il regista napoletano pedina con intensità, pudore, precisione di dettagli e una finezza ellittica che va a scapito dell’efficacia – o della facilità? – narrativa. Ottimo Renzi, straordinario Servillo. 2 Grolle d’oro: sceneggiatura, miglior attore (Servillo).

JE RENTRE À LA MAISON di Manoel de Oliveira (2001)

26 Apr

Film TV: Gilbert è un affermato interprete teatrale. Una sera, alla fine dello spettacolo, la tragedia irrompe bruscamente nella sua vita… Straordinariamente lieve, sottoposto a un controllo ferreo, senza una sbavatura: con i suoi piani fissi e il suo gusto per i particolari, con dialoghi svagati e ridotti all’essenziale, con un’ironia diffusa, de Oliveira ha realizzato un film senza età e senza ricatti, assistendo al quale si ha la sensazione di condividere il tempo della maturazione, la resistenza apatica, la vulnerabilità disarmante di Gilbert. Al servizio dell’ultranovantenne maestro lusitano, due attori che non esitano davanti a lunghissimi primi piani: il protagonista Michel Piccoli e John Malkovich nella piccola, sgradevole, perplessa parte del regista. E nonostante lo “spessore” del tema e della messa in scena, Ritorno a casa è anche divertente.

Film TV: Finita una replica di Il re muore (1962) di Ionesco in un teatro parigino, un vecchio e famoso attore apprende che in un incidente d’auto ha perduto la moglie, la figlia, il genero. A 92 anni de Oliveira fa il suo primo film sulla vecchiaia e se lo scrive da sé senza fonti letterarie alle spalle. La sua arte del togliere è inconfondibile, ma qui toglie troppo: invece di suggerire bisbiglia e invece di narrare dice. La leggerezza si ferma sulla soglia dell’ineffabile. Qua e là struggente, ma anche divertente nella sua pudica ironia, e un bel crescendo nell’ultima mezz’ora. M. Piccoli è perfetto.

LA STANZA DEL FIGLIO di Nanni Moretti (2001)

18 Apr

Giancarlo Zappoli: Moretti torna a costruire un ‘personaggio’: che non è più Apicella e neppure il prete di La messa è finita. Lo fa con tutto il rigore che neppure i più accesi detrattori gli hanno mai negato. Divenuto padre di Pietro cinque anni fa Moretti deve avere colto il senso di quello che è il titolo dell’ultimo film di Zanussi (non uscito da noi) : “La vita come malattia mortale trasmissibile per via sessuale“. Cioè dando la vita a un figlio gli assicuriamo inevitabilmente anche la morte. E se questa accade prematuramente e mentre i genitori sono ancora presenti il dramma è devastante. Il film ( come già La vita è bella di Benigni) è come diviso in due parti. La prima, in cui Moretti ‘fa’ Moretti con le sue idiosincrasie, le sue scarpe, le sue corse, le sue incertezze, i suoi incupimenti seguiti da improvvisi sorrisi luminosi. La seconda, in seguito alla morte di Andrea, in cui si muta bruscamente registro. I lutti laceranti cambiano nel profondo, ma forse si poteva lavorare un po’ di più sul Giovanni personaggio e un po’ meno sul Nanni che gli si sovrappone. Resta comunque un film da vedere.

Morandini: Tema centrale: l’elaborazione del lutto. Si dà spazio al padre, il più fragile nel corto circuito tra l’insensatezza di un dolore insostenibile e il senso che si tenta di dargli per collocarlo nella trama della vita che continua, per rendere pensabile quel che è impensabile, portandolo alla parola e all’immagine. L’itinerario è raccontato con forza impietosa che si accompagna alla difficile arte del pudore. Nel suo film più maturo, anche stilisticamente, Moretti fa piangere, fa sorridere, fa aspettare. Sfiora i confini del mélo, raggelandolo.  Tutto funziona: la resa degli attori, la fotografia di Beppe Lanci, la musica discreta di Nicola Piovani. Palma d’oro a Cannes, 3 premi Donatello (film, Laura Morante, musica), Nastro d’argento al miglior film.

Film TV: Giovanni, psicanalista di Ancona, è convocato dal preside della scuola di suo figlio Andrea, accusato di aver rubato un fossile. A casa l’uomo discute con la moglie Paola sulla responsabilità del figlio, che nega il furto e ricuce in anticipo lo strappo coi genitori. Come si comunica l’afflizione. Secondo Nanni Moretti attraverso un’estetica del pudore, quella che rende questo film rigoroso e bellissimo. Uno sguardo morale sul dolore capace di non spettacolarizzare le emozioni.

THE MAN WHO WASN’T THERE di Joel & Ethan Coen (2001)

3 Mar

Film TV: California, 1949: il barbiere Ed Crane, che sospetta l’infedeltà della moglie Doris, incontra un commesso viaggiatore che gli propone di mettere su una catena di lavaggio a secco. I Coen modellano narrativamente e visivamente la vicenda sui classici del noir (dai romanzi di James M. Cain – alle cui suggestioni i Coen si sono esplicitamente ispirati – ai film di Fritz Lang e di Robert Siodmak), ma più che agli snodi del plot sono interessati ai temi dell’identità e dell’essere – o meglio, del “non essere” – nel mondo. Atmosfere inquiete, tagli di luce che forano il buio e il grigio dilaganti. La cadenza inevitabile del destino è sottolineata (come in La fiamma del peccato di Wilder) dalla voce narrante del protagonista: quieta, smorta, rassegnata. In fondo, Ed Crane cercava solo “un qualche tipo di fuga, un qualche tipo di pace“. Straordinario Thornton, invecchiato, dimesso, intristito. Un film “in levare”, raffinatissimo e desolato.

Giancarlo Zappoli: Siamo nel 1949 a Santa Rosa in California. Ed Crane è barbiere triste, senza nessuna prospettiva. I fratelli Coen tornano, dopo Fratello, dove sei?, con un film altrettanto importante ma meno accattivante per il pubblico. Una sceneggiatura egregia che avrebbe meritato un Oscar. Rigorosi, attraverso un umorismo sottile e uno splendido bianco e nero, confermano la passione per il cinema noir. La provincia, le manie dell’epoca, il razzismo, il racket del gioco, tutto è rappresentato ad arte. Grande interpretazione di Thornton qui alla sua prova di maturità. Sempre efficaci James Gandolfini e la moglie di Joel Coen, Frances McDormand.

Morandini: Per uscire dalla mediocrità e cambiare mestiere, il barbiere Ed Crane progetta di procurarsi diecimila dollari. Personaggi, atmosfere, rimandi criptici, fotografia (girato a colori e stampato in BN con un prezioso chiaroscuro di Roger Deakins) fanno del nono film dei fratelli Coen un noir e un omaggio al noir. È, però, qualcosa di più, a partire dall’elegante, silenzioso, tabagista e moralmente squallido protagonista (Thornton capace di essere passivo senza scomparire) che si propone di essere qualcuno e di continuare a non esserci per gli altri, invisibile e insospettabile. Il nesso col principio di indeterminazione del fisico Heisenberg, citato dall’avvocato difensore, è evidente. Imperniato su un personaggio insignificante, è un film ricco di significati. Qualche ingorgo nell’ultima parte dai molti finali. Premio della regia a Cannes 2001.

MULHOLLAND DRIVE di David Lynch (2001)

3 Mar

Morandini: Hollywood 2000, da incubo. Due trentenni, una bionda e una bruna, amiche, amanti e nemiche; un regista che prepara un film che “non s’ha da fare”; un teatrino che si chiama Silenzio; una piccola folla di mafiosi, avventori, vicine di casa impiccione, veggenti, ex bellezze sinistre; una strada come titolo (porta in novanta minuti all’oceano); una scatola blu che, aperta, fa ricominciare la storia da capo, rivelando il sommerso, il rimosso, l’inconscio. È come Strade perdute, e ancor più intriso di una dimensione onirica; affollato da personaggi alla Twin Peaks. Pilot di una serie TV per l’ABC che lo rifiutò e passato ai francesi Alain Sarde e Studio Canal che offrirono a Lynch i mezzi per rimontarlo. Al Festival di Cannes 2001 vinse – ex aequo con L’uomo che non c’era – il premio della regia. Musiche di Angelo Badalamenti (il mafioso che risputa il caffè) e Lynch. Coco è la Miller, provetta ballerina di tip-tap e attrice tra il ’36 e il ’56. Versione italiana tagliata.

Film TV: Della storia di “Mulholland Drive” si capisce poco o nulla. Ma niente paura, deve essere così. Punto primo: David Lynch ribadisce l’assunto del suo film più sperimentale (“Fuoco cammina con me“) e di quello (secondo lui più irrisolto), “Strade perdute“. Il cinema è la scrittura del sogno. Una finestra che si apre su un mondo dove non è la logica a regolare i rapporti di causa-effetto ma il delirio. Punto secondo: solo attraverso l’intima conoscenza dell’Ordine è possibile descrivere alla perfezione il Caos. In parole povere: il fatto che la storia, a caldo, sia incomprensibile, non significa naturalmente che non abbia “senso”. La mappa per muoversi nel delirio la da proprio il regista, con il suo cinema precedente (personaggi che parlano al rovescio) e attuale (una chiave di lettura… blu). Abbandono, deriva: con un genio come Lynch bisogna saper accettare il surrealismo e la disillusione di realtà come sole, vere, essenze del cinema.

MARFA SI BANII di Cristi Puiu (2001)

4 Feb

Alessandro Cavazza: Il film battistrada della new wave del cinema rumeno. Road movie a basso budget e macchina a spalla che segue il viaggio da Costanza a Bucarest di un ventenne aspirante imprenditore, prezzolato da un boss locale per trasportare un pacchetto dal misterioso contenuto. La suspence tutta velocità e pericolo da highway thriller americano anni ’70 si fonde con il realismo del racconto e lo humor che emerge dalle vacue e ciniche conversazioni dei protagonisti. Fotografia implacabile di una Romania contemporanea in cui la transizione democratica e la legittima rincorsa al benessere sono minati da opportunismo, corruzione e violenza.

TRE MOGLI di Marco Risi (2001)

30 Dic

Fabio Zanello da Sentieri Selvaggi: (…) una riflessione sulla struttura stessa dell’emancipazione femminile. In un’analisi autoptica dell’universo femminile il regista e la sceneggiatrice Silvia Napolitano usano il furto dei nove miliardi come pretesto per ribaltare tre esistenze. “Tre mogli” si incastra infatti in quel territorio (o meglio in quel non-luogo) che segna l’epitaffio dei film sulla fuga. Risi così racconta in maniera inattuale la deriva esistenziale di tre donne che pensano di aver conseguito la piena realizzazione di sé e l’emancipazione con la rivalsa sui compagni. C’è un rispetto come non si vedeva da tempo verso il linguaggio scurrile delle mogli quando parlano di uomini. Dovuto a tre ottime attrici che sono l’incarnazione perfetta dell’ossessione di Risi: la possessione di una diversità caratteriale, dove tutti gli sforzi sono vanificati da una smorfia del caso.

Morandini: Assai diverse tra loro, Beatrice, Bianca e Billie hanno una cosa in comune: i loro mariti lavorano nella stessa banca (direttore, cassiere, guardia) e s’involano verso l’Argentina con un bottino di nove miliardi. Scritta da Silvia Napolitano e riveduta dal regista, anche produttore, è un’ingegnosa e spiritosa commedia di viaggio al femminile che pecca di ridondanza nel sottolineare i temi del discorso. Nel trio perfettamente affiatato delle 3 protagoniste, spicca il brio di Iaia Forte.

Film TV: Marco Risi questa volta pensa alla tradizione, straordinaria e spumeggiante, del cinema di papà (il proprio e gli altri registi storici), dell’allegria, spesso profonda, della commedia italiana. Da Buenos Aires alla Patagonia. Viaggio e incanto dello spaesamento (soprattutto classico scollamento tra luoghi e personaggi da commedia), leggerezza e comicità, passi di tango e note di costume che si alternano a gag, omaggi discreti e salutari cattiverie, turiste per caso e soprattutto mogli sull’orlo di una metamorfosi di caratteri. Tutto quello che le donne possono dire senza chiedersi che cosa stiano facendo alla fine del mondo.

L’AMORE IMPERFETTO di Giovanni Davide Maderna (2001)

8 Ott

Film TV: I silenzi su cui era costruito il bell’esordio di Maderna (Questo è il giardino miglior opera prima a Venezia’99) cedono il passo a dialoghi quasi non recitati. Pur scontando i classici difetti dei secondi lavori, è il film di un regista vero, dotato di un sorprendente controllo della messa in scena e rispettoso sia dei personaggi che degli spettatori.

Morandini: (…) temi gravi e rischiosi (la morte, il dolore, l’aborto, la fede religiosa, la coscienza che compie scelte difficili sfidando il senso comune, l’invasione dei mass media nel privato), difendendo l’imperfezione dell’amore. È imperfetto anche il film, non privo di squilibri e sostenuto da due interpreti acerbi, ma, nella sua asprezza, offre momenti di emozionante intensità, affidati ai silenzi più che alle parole e a una scrittura di veemente sobrietà. Fotografia (cinemascope) di Yves Cape.

HABLA CON ELLA di Pedro Almodovar (2001)

20 Set

Morandini: Almodóvar fa un film dove gli uomini sono in prima fila e piangono, un film di finestre e di porte, ricco di simmetrie, metafore, simboli, incroci, rimandi che parla di tante cose: amore folle, morte, solitudine, incomunicabilità delle emozioni, potere ignorato della parola, silenzio del corpo, necrofilia (collegata al voyeurismo, dunque alla cinefilia), balletto, musica, corrida, cinema nel cinema (Amante menguante, pornofilm surrealista), amicizia virile. E un finale aperto al futuro che chiude un film disperato.

Film TV: Costruito secondo una struttura narrativa fascinosa e rischiosa e girato con un’aderenza raffinata e disarmante alla concretezza dei corpi, il film trova il suo filo conduttore nelle voci narranti. L’amore continua a farsi e disfarsi, nelle vite solitarie che piacciono a Pedro Almodóvar, che mai è stato tanto estremo, remoto e ostinato.

Aldo Fittante: Un viaggio nell’amour fou, una vacanza nell’inferno dei sentimenti non corrisposti. Il contraltare perfetto ed essenziale ai modelli (para)televisivi del nuovo millennio, schiacciato da inverosimili irreality show incapaci di spiegare perché si possa (e a volte si debba) morire d’amore. Attraversato dagli spettri, dalla paura, dai fantasmi, dall’impossibilità di essere normali, il cinema di Almodovar è oggi il romanzo per immagini più fluido, onesto e meravigliosamente rielaborato che si possa chiedere. Gli attori, seppur strepitosi, sono solo marionette, capaci di straziarci il cuore quando scelgono di toccare gli altri. Un’occasione anche per rivedere Pina Bausch, l’inventrice del teatro danza, nell’incipit con il suo spettacolo Café Muller, scena girata al Teatro Massimo di Palermo.