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THE STRAIGHT STORY di David Lynch (1999)

2 Ago

Film TV: Il vecchio Alvin Straight ne ha viste davvero tante, negli anni trascorsi sulla strada e in quelli passati sul prato di casa e nel drugstore dietro l’angolo. Un giorno prende il tagliaerba e parte, attraversa a passo di lumaca strade, campi di mais, cieli, il Mississippi per riconciliarsi con il fratello che non vede da troppo tempo. C’è eccome l’orrore, in “Una storia vera“; ma c’è anche la saggezza che, più o meno, ci fa tirare avanti e invecchiare; c’è la tristezza lancinante sul volto di Sissy Spacek che guarda fuori dalla finestra e rivede sempre un bambino sul prato. È bellissimo. Elementare (nel senso più alto del termine). Straordinario Richard Fansworth, scandalosamente non premiato a Cannes e morto suicida un anno dopo l’uscita del film.

Morandini: Per visitare il fratello infartuato Lyle, con cui non parla da dieci anni per una lite, il 73enne Alvin Straight – che cammina con due bastoni e non ha patente – parte su un tagliaerba con rimorchio da Laurens (Iowa) per Mount Zion (Wisconsin), distante 317 miglia (circa 500 km). Opus n. 8 di Lynch, prodotto dalla montatrice Mary Sweeney (che firma la sceneggiatura, ispirata a una storia vera, con John Roach) anche con finanziamenti francesi, è il film più controcorrente e meno hollywoodiano degli anni ’90. È un road movie che ha tutto per essere fuori moda: lentezza (10-15 km all’ora), malinconia della vecchiaia, scrittura di classica semplicità, personaggi positivi, ritmo disteso senza eventi drammatici. Pur ribaltando la propria prospettiva (in una logica taoista Una storia vera sarebbe lo yang, il precedente Strade perdute lo yin), Lynch non altera il suo inconfondibile stile: lascia allo spettatore il tempo di pensare, commuoversi, immergersi nei colori del paesaggio, guardare un temporale e il cielo stellato. “Straight” sta per diritto, semplice, onesto ed è anche il cognome del protagonista. Attivo nel cinema come comparsa dal 1937, ancora bambino, poi stuntman, R. Farnsworth passò a parti di caratterista nel 1963, ebbe una nomination all’Oscar per Arriva un cavaliere libero e selvaggio (1977) e una per questo film.

THE WAR ZONE di Tim Roth (1999)

28 Lug

Film TV: Il cielo è basso, scuro. Le onde minacciose si infrangono contro le rocce nere e l’unico colore definito, nella campagna uggiosa e spenta del Devon, è il bianco di una casa. In quella casa disordinata e vissuta, abita una famiglia arrivata da Londra: padre, madre, due figli e una neonata. In una delle prime scene l’auto di famiglia finisce fuori strada. È un’anticipazione narrativa di ferite più gravi e dolorose. Quella regione triste, quella casa buia e grigia, il vecchio bunker a picco sul mare, il pub vuoto del paese sono le postazioni, gli incerti confini della zona di guerra che dà il titolo al romanzo di Alexander Stuart e sul quale Tim Roth ha costruito il suo esordio da regista. Testimone dolente e incupito di questa guerra sorda e devastante, è il figlio Tom, un quindicenne brufoloso e non riconciliato, che scopre, filma, rivela e purifica nel sangue il segreto violento che lega il padre e la figlia Jessie. Incesto, infelicità e indifferenza sono gli umori e i temi che circolano in questa opera prima di un attore-regista che ha soprattutto rispetto per i suoi attori e che modella un film duro, capace di comunicare malessere e di lasciare il sospetto di un’asprezza calcolata.

Morandini: In una casa isolata del North Devon, sulla costa inglese che si affaccia sulla Manica, vive da poco una famiglia londinese: padre, madre e due figli, la diciottenne Jessie e il quindicenne Tom. Assorta nelle cure per la neonata che ha appena messa al mondo, la madre non si accorge (o non vuole vedere?) che il marito abusa della figlia consenziente con dolorosa perversione. Lo sa Tom che nel romanzo, sceneggiato dallo stesso autore Alexander Stuart, è la voce narrante e il testimone dallo sguardo implacabile e morboso. Il memorabile esordio nella regia dell’attore inglese Roth è all’insegna di uno scavo nell’inconscio di cui il nero mare burrascoso e i tetri, selvaggi paesaggi costieri (nel bel Panavision di Seamus McGarney) sono gli invernali emblemi. Scrittura di incandescente concisione, è un film molto fisico dove nessuno è innocente. Non c’è denuncia né indignazione. Persino il giudizio etico appare sospeso. Rimane la compassione per i personaggi i cui interpreti, più che recitare, sono strumenti guidati dalla regia. Anche la musica di Simon Boswell, prevalentemente pianistica, non surroga né ingombra: suggerisce.

KADOSH di Amos Gitai (1999)

27 Apr

Film TV: Benedetto Signore per non avermi fatto nascere donna. È una delle prima litanie recitate da Meir trentenne studioso della Torah; l’uomo è sposato da dieci anni con Rikva, ma la coppia non ha figli anhe se la donna non è sterile. Ultimo atto di una riflessione in tre parti sulla vita nelle grandi città d’Israele, dopo “Devarim” e “Yom Yom“. Le donne sono le vere protagoniste del film, vivendo in prima persona le contraddizioni della comunità che sacrifica al rituale e ai comandamenti ogni aspetto del quotidiano, anche il sesso. Gitai, che per molti anni ha vissuto lontano da Israele per le sue idee sulla questione palestinese, ci offre un documento lucido e sofferto sul rapporto tra individuo e comunità.

Morandini: Mea Shearim, il quartiere più ortodosso nella parte ebrea di Gerusalemme, Meïr e Rivka, sposati da dieci anni, si amano teneramente ma soffrono perché non hanno figli. Malka, sorella di Rivka e innamorata di Yaakov, musicista che ha ripudiato la vita religiosa, è costretta ad accettare le nozze con Yussef, combinate dalla madre e dal rabbino. Terza parte, la migliore, di una trilogia su tre grandi città dell’odierna Israele, dopo Tel Aviv (L’inventario, 1997) e Haïfa (Giorno per giorno, 1998). Decimo film narrativo di Gitai, autore di 26 documentari di varia lunghezza, ha nel suo versante documentaristico sui rituali religiosi che regolano la vita quotidiana di questo microcosmo ebraico uno dei suoi due punti di forza. L’altro è l’intensità con cui sono raccontate le due sorelle (2 interpreti di energia espressiva pari alla bellezza), la loro condizione di vittime del potere religioso esercitato dagli uomini e di prigioniere di un ruolo prestabilito da secoli e diventato insostenibile. Critico, monocorde e dolente con un crescendo nella 2ª parte sino allo straziante e pur pacato finale, il film supera i limiti della tesi con la capacità pudica dello sguardo. Yaël Abecassis (Rivka) ha collaborato con il regista alla sceneggiatura. Funzionale fotografia di Renato Berta e musiche di Philippe Eidel che curiosamente rimandano a quelle di Astor Piazzolla.

LA FILLE SUR LE PONT di Patrice Leconte (1999)

20 Gen

Morandini: Salvata nella Senna dove si è buttata da un ponte di Parigi, l’inquieta Adèle accetta di lavorare come “bersaglio” del suo salvatore Gabor, lanciatore di coltelli. Scritto da Serge Frydman, il sedicesimo film di Leconte è manierista sin dall’uso di un bianconero stilizzato (fotografia di Jean-Maria Dreujon), “troppo concentrato nella propria forma per riuscire a offrire personaggi in cui credere” (U. Mosca), ma la sua compattezza tematica gli dà, nonostante i dislivelli stilistici, un’aura misteriosa.

Film TV: Adele si sta gettando da un ponte, ma Gabor, un lanciatore di coltelli (“alla cieca”), in cerca di una nuova partner – la ferma e la convince a seguirlo. È ambientato ai nostri giorni, ma personaggi, attori, atmosfere circensi e velleità autoriali rimandano a “La Strada”. Daniel Auteuil “Mastroianni del cinema francese”, sarebbe, dunque, un moderno Zampanò, naturalmente ancor più “maledetto” ed esistenzialista. E il malinteso Vanessa Paradis (al secondo film consecutivo con Patrice Leconte, dopo l’inguardabile “Uno dei due”), dovrebbe ricordare l’immortale Gelsomina di Giulietta Masina. Girata con formato panoramico e in bianco e nero, la pellicola scivola via tra momenti alti e cadute rovinose, come quasi tutti i lavori del regista di “Il marito della parrucchiera” (unica sua opera compiuta). Per fortuna che c’è Auteuil, che regge il peso delle ambizioni, con quella faccia un po’ così che, tra l’altro, si spinge proprio nei pressi di Genova. Il fellinismo non fa (mai) Fellini.

A DOMANI di Gianni Zanasi (1999)

14 Gen

Film TV: Andrea ha quindici anni, vive a Vignola e la sua vita scorre tranquilla fino a quando comincia a chiedersi dove vanno le corriere quando lasciano la stazione. Diviso tra deliri d’onnipotenza e la realtà di tutti i giorni, non sa bene che strada prendere. Zanasi è bravo nel dirigere e controllare la vitalità dei suoi attori non professionisti, nel costruire dialoghi spassosi e mai noiosi, nel filmare scene che sembrano alimentarsi con un’energia autonoma e interna alle situazioni, nel governare un film che ha il peso di una piuma.

Morandini: Tra il quieto tran tran quotidiano e sogni di onnipotenza a occhi aperti, il quindicenne Andrea decide di scappare da Vignola (MO) a Bologna per visitare il Motor-Show. Lo fa, per motivi diversi, anche sua sorella cui lo unisce un attendibile rapporto di protezione e insofferenza. Fuori dagli schemi di sociologia giornalistica di moda, al suo secondo film Zanasi descrive con garbo leggero e insolita freschezza un’adolescenza normale con le sue piccole follie, l’allegra cialtronaggine, gli umori, la goffaggine. Sa dirigere i non attori, parla di quello che conosce, ha una sua precisa idea di cinema. Minimalista con intelligenza pudica.

EYES WIDE SHUT di Stanley Kubrick (1999)

7 Gen

Farinotti (mymovies): Questo film ha chiuso tre parabole: ricerca, carriera e vita. È quasi naturale che Kubrick, dopo tanto rigoroso, totale, maniacale e mistico impegno, non gli sia sopravvissuto. Qui pone il suo suggello, la verità ultima, sul sesso, che è certamente più importante, per fare un solo esempio, della fantascienza. Il regista si ispira a un racconto di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, ambientato nella Vienna degli anni venti, e traspone la vicenda nella New York dei giorni nostri. Alta borghesia, alto censo, belle case, bella gente. Il resto è ormai cronaca-leggenda, appunto: i quasi tre anni di lavorazione, certi attori assunti poi protestati, come Keitel e Malkovich, e le crisi matrimoniali-sessuali di alcuni protagonisti, a cominciare dalla coppia regina Tom-Nicole. Chissà se è tutto vero.

Morandini: A Manhattan (ricostruita in studio a Pinewood, GB) alla fine del ‘900, la quieta vita di una giovane e agiata coppia entra in crisi quando cominciano a incrociarsi desideri, fantasie sessuali, adulteri sognati o mancati. Pur nella sua sostanziale fedeltà, l’ultimo film di Kubrick, sceneggiato con Frederic Raphael, reinventa il romanzo breve Traumnovelle (1926) di Schnitzler. Opera imperfetta, un po’ ripetitiva e incompiuta (nel montaggio) che a livello stilistico rifiuta ogni pathos, è leggibile in chiave ironica, psicanalitica, politica, persino filosofica come suggerisce il titolo: per vedere meglio, per accedere a un’“altra” visione, bisogna tenere gli occhi ben chiusi. Fondato sul numero 2 (la coppia, lo specchio, il doppio, ecc.), è un film che trasuda denaro nella sua impietosa descrizione dei rapporti di classe, di censo, di potere, soprattutto sui poveri e sulle donne e sui loro corpi.

Film TV: Bill, un medico senza alcuna qualità, entra in crisi quando la moglie Alice gli racconta i suoi sogni di tradimento e quando una sua paziente gli confessa il suo amore davanti al cadavere del padre. Alice e Bill sono presi in ostaggio dalla trama suadente del testo di Arthur Schnitzler, “Doppio sogno” e guardati a vista dagli occhi di Kubrick e dalla sua volontà di raccontare la sessualità, della malattia e dell’ibernazione delle passioni. L’apparente tema centrale del film, come sempre nella folgorante filmografia kubrickiana, è in ritardo e in anticipo. In una New York prenatalizia, artificiale e tetra, nonostante le luci colorate e bianchissime, Bill, capirà, forse, che il sesso è una sciarada, una messa in scena, una cerimonia agghiacciante come certi horror degli anni Cinquanta e Sessanta.