Al di là (della frontiera) del bene e del male di Fabrizio Tassi
Da Werner Karl Heisenberg al Far West. Un bel salto davvero (all’indietro?). Dall’epoca dell’indeterminazione e dell’incertezza totale (la nostra) a quella delle presunte certezze (la vendetta!il coraggio! la libertà!), delle ragazzine determinate, della fondazione americana. I Coen ci hanno abituato a questo genere di vertigini. Anche se i Coen, a dire il vero, se ne fregano delle nostre paturnie critiche e fanno essenzialmente ciò che li diverte. Meglio per loro. E meglio anche per noi, che ci possiamo divertire a misurare la distanza che separa Larry Gopnik,“l’uomo serio”, quello che crede nelle leggi della fisica e nelle persone, ma si ritrova immobile e impotente, e Rooster “Grinta” Cogburn, il cowboy dude, che non crede più a niente, se mai ha creduto in qualcosa – a parte l’alcool (di cui abusa) e la pistola (che ormai usa maluccio) – ma che sa ciò che va fatto e lo fa. Certo è curioso che, appena usciti da una commedia ebraica, in cui l’assenza di Dio è rimpiazzata dai Jefferson Airplane (ché tanto agli uragani non si comanda, e neppure alle mogli fedifraghe), ci ritroviamo all’inizio di True Grit con un Proverbio biblico, che nella traduzione italiana risulta così, «I malvagi fuggono quando nessuno li insegue» («The Wicked Flee When None Pursueth»), e che per la precisione dovrebbe suonare «L’empio fugge anche se nessuno lo insegue».
Libro sui generis, quello dei Proverbi (Voltaire, col suo tatto proverbiale, ne parlava come di «Una raccolta di massime triviali, basse, incoerenti, senza gusto e senza disegno»), in cui Dio non parla, ma in compenso è onnipresente, vede nel cuore degli uomini e se ne frega se la legge terrena favorisce ricchi, furbi e potenti (con o senza legittimo impedimento), perché tanto alla fine ci pensa Lui a ristabilire la giustizia, già nell’al di qua (la distinzione fra trascendente e immanente è una sottigliezza maturata successivamente…). L’uomo è artefice del suo destino e «nulla è gratis in questo mondo, a parte la grazia di Dio». Lo sa bene la quattordicenne Mattie Rosse («Il giusto è sicuro come un giovane leone», dice di lei il verso successivo dei Proverbi), che è spinta da un sacro, ostinato fervore, e non è disposta ad accettare che il fuorilegge Tom Chaney la faccia franca e la morte di suo padre rimanga senza giustizia. Che la “mano di Dio” prenda in prestito quella di un vecchio alcolizzato senza scrupoli, è il bello del cinema, dell’America e del western, soprattutto nella versione sorniona dei fratelli Coen, che sposano l’epica ironica (epica in campo lungo, ironia nei dettagli) di Charles Portis, uno che celebrava il mito proprio mentre si impegnava a smitizzarlo.
Forse è per questo che il film, per lo più, è piaciuto a quelli che di solito non amano i fratellini filosofi e cinefili, mentre ha lasciato perplessi i loro cultori. Chi si aspettava una comicità più cinica e feroce, chi voleva una rilettura più ludica e cinica, chi avrebbe accolto con favore una qualche morale immorale (cinicamente parlando). A conti fatti, in questa impeccabile trasposizione del romanzo (mentre il film di Hathaway era una sua rilettura), c’è del sincero eroismo, una bella dose di affettuosa ironia, nonché una zampata finale di struggente malinconia. Tutto questo in una pellicola che all’inizio (ma solo all’inizio!) sembra una di quelle astrazioni cinematografiche (dagli sviluppi imprevedibili) dentro cui i Coen giocano il gioco dell’assurdo, del non-sense, della verità dell’assenza di una verità. Roba di testa, insomma. Anche roba buffa, tipo il primo dialogo tra l’eroina e un vespasiano con dentro l’eroe, e poi stacco veloce su una bara infilata dentro l’inquadratura in verticale, fatta probabilmente dello stesso legno di cui è fatto il bagno. Roba da “commedia di frontiera”, tipo il Grinta sorpreso nel letto col suo pigiama zozzo (quanto è graziosa la scenetta? quanto è clamorosamente Dude, Jeff Bridges?) o la sua espressione con la bocca aperta e la sigaretta penzolante dopo che la ragazzina ha attraversato il fiume a cavallo.
In realtà, più ci inoltriamo nell’avventura, più il racconto ci sembra concreto, diretto, addirittura limpido. Capiamo che gli orizzonti in “cinemascope” sono solo orizzonti in “cinemascope” (ci prendiamo una boccata d’aria, dopo la claustrofobia esperienza nella scatola di A Serious Man insieme al gatto di Schrödinger) e che le dissolvenze incrociate non fanno mimesi o citazione, ma sono la grammatica del film (e poco importa quanto siano realmente-sinceramente funzionali al racconto). Altro che sfacciata devozione/dissacrazione postmoderna. Siamo già oltre, a un altro tipo di classicità, che aderisce alla storia, ai personaggi, pur sapendo che è un’aderenza (ri)costruita, ricercata, estremamente consapevole. Intanto noi aggiustiamo le antenne sulle frequenze di questo western sbrindellato, con i suoi eroi da strapazzo guidati da una bambina quasi adolescente più testarda delle testarde paladine di Zhang Yimou e una faccia tosta impagabile, al punto che davanti al cadavere del padre se ne sta lì a litigare sul prezzo con il becchino (è un’idealista, bada allo spirito, non al corpo, il babbo non ha bisogno di devozioni, ma di giustizia). Lei sembra perfettamente a suo agio in questo “tempo di mezzo”, in cui la wilderness sta cedendo il passo alla civiltà, e la legge del più forte e del senso comune devono fare i conti con le regole e i codici. Cogburn è destinato a sparire, insieme al suo rozzo realismo e la morale umorale, che gli permette di rapinare una banca, di uccidere senza pietà, e allo stesso tempo di non sopportare che qualcuno maltratti un animale. Ma come la mettiamo quando non ci saranno più quelli come lui, capaci di atti eroici, di sacrifici sublimi? Lui alla fine ci va davvero a cavallo, con la briglia tra i denti, uno contro quattro. E quell’altro bellimbusto, il Ranger texano elegante e fanfarone, alla fine lo spara quel colpo da trecento metri e più. Mitologia western. Che peraltro svapora di fronte alla formidabile corsa finale nel buio, tra alberi, polvere, stelle e fantasmi, con il Grinta che traghetta la piccola Mattie dal passato al futuro. Per fare che, poi?
Cosa c’è dietro tutta questa lucida “trasparenza” cinematografica? E a quei «dettagli così vividamente realistici che sono diventati surreali» (per usare le parole che Ethan Coen dedica al romanzo di Portis)? Di sicuro, intorno, ci sono due inquadrature che fanno il film. La prima, con quel brillio sfocato al centro dello schermo nero, che sembra evocare il fascio di luce di una proiezione cinematografica, salvo poi definirsi e proiettarci davanti a una casa con veranda, dove sta il corpo morto del padre di Mattie, mentre la voce di lei racconta, rievoca, ricorda. E l’ultima, con quelle lapidi in primo piano, e la figura nera, severa, senza un braccio (rimasto in quell’altro mondo) della zitella acida, che cammina verso l’orizzonte, sempre più lontana. Nel frattempo il Far West è diventato un circo, una rappresentazione nostalgica. Quella stessa rappresentazione con cui, in fondo, ci balocchiamo da sempre al cinema. Incorreggibili Coen. La ragazzina diventata zitella non cita più Ezechiele, i Proverbi e la legge del taglione – che hanno fatto l’America anche loro. Forse ha scoperto che non valgono più della blasfema noncuranza del Grinta, uno che non credeva «nelle favole, nei sermoni e nelle promesse di denaro». Non può, non deve incontrarlo, in quel malinconico triste Wild West Show, fatto di vecchi sopravvissuti male e di attori camuffati da indiani. Lui era un’altra cosa. Lei era un’altra cosa, ora lo sa. E nel caso le venisse il dubbio che fosse stata solo un’avventura immaginaria, c’è il suo non-braccio a ricordarle la “verità”. Lei è stata nel territorio indiano, al di là di Fort Smith, l’ultima Frontiera: a quei tempi c’era un detto, secondo cui «Non c’è legge a ovest di St. Louis e non c’è Dio a ovest di Fort Smith». Noi già lo sappiamo che, anche quando Dio e la Legge arriveranno “dall’altra parte”, il mondo non sarà più bello, giusto e ordinato. Sarà solo diverso. È stata una dura, avventurosa, fiabesca, crudele iniziazione per questa ragazzina, col suo incrollabile americanissimo individualismo, come sono americane le contraddizioni di sempre, fuga/radici, natura/civiltà, egoismo/solidarietà, leggenda/realtà. Lei porterà sul corpo e nell’anima il prezzo della vendetta consumata. Lei che ha constatato di persona la distanza insanabile che c’è fra ciò che è giusto e ciò che desideri, tra ciò che vorresti e ciò che è.
Tutte cose già dette? Certo, ci mancherebbe altro. Quando mai i Coen hanno voluto dire cose nuove? Al massimo hanno (s)velato ciò che di solito non riusciamo o non vogliamo vedere. Dopo il buon Gopnik, che ha dovuto fare i conti col caos, l’irrazionale, l’indeterminato, il mistero, ci ritroviamo con una ragazzina alla prese col cielo stellato sopra di sé e la legge morale dentro di sé. Lei che ci aveva spiegato la differenza tra un atto sbagliato in sé e uno sbagliato secondo le nostre leggi e costumi. Il diritto affonda lì le sue radici, e in quella logica il bene diventa ciò che è legale e il male ciò che è proibito, rendendo complesso (di fronte all’affermazione della nostra libertà) un discorso etico universalmente valido (diceva Leopardi: «Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva»). Intanto, però, l’empio fugge, che sia inseguito oppure no (da un cowboy o da un qualche dio), perché sa di essere un empio. E questa, forse, è già una punizione in sé. Ma quando non lo saprà più…? Discorsi troppo complicati per un film spiritoso e malinconico? Può darsi. È anche vero, però, che in questo racconto c’è più contrattazione che azione. Si discute molto su qual’è il prezzo da pagare per ottenere qualcosa. La sfida uno contro cinque, la fucilata da trecento metri, sono cose dell’altro mondo, quello che non c’è più, se mai davvero c’è stato. Di sicuro noi siamo rientrati in quell’epoca e quel “genere” attraverso lo sguardo fresco, irriverente, ostinato (lei compare dietro il vetro di un treno, su cui è riflesso il West) di una ragazzina che indossa panni più grandi di lei. E ne usciamo vestiti a lutto per la perdita di qualcosa che ci addolora mortalmente, ma che dovevamo perdere per forza. Il tempo ci sfugge…
da Cineforum n.502
Tag:CINEFORUM, Fabrizio Tassi, Joel & Ethan Coen