Tag Archives: Eric Rohmer

LES RENDEZ-VOUS DE PARIS di Eric Rohmer (1995)

23 Set

Film TV: Tre episodi di amore, abbandono, gelosia e ripiche nella Parigi un po’ sognante degli artisti, degli insegnanti e degli studenti universitari. Il solito, lieve e garbato Rohmer capace di entrare nell’anima dei suoi personaggi con la geometrica precisione di un filosofo cartesiano.

Morandini: Girato in 16 mm con largo uso di tecniche leggere. Rohmer fa un’altra variazione sul suo microcosmo bipolare (caso e destino, uomo e donna, verità e menzogna) dove sono i maschietti a essere quasi regolarmente sconfitti. Il primo episodio “L’appuntamento delle 7” è il più brioso, il terzo il più fievole (“Madre e bambino, 1907”). Nel secondo, il più perverso (“Le panchine di Parigi”), si passano in rassegna i parchi parigini (Belleville, la Villette, Montsouris, Trocadero) con una sosta al Bateau Lavoir, divagazione culturale sui rapporti tra surrealismo e cubismo.

L’ANGLAISE ET LE DUC di Eric Rohmer

15 Set

L’evocazione di un tempo ed uno spazio di Andrea Caramanna da RevisionCinema

L’evocazione di un tempo ed uno spazio è questione di stile, di ricerca espressiva pertinente alla “soggettiva” percezione di un evento. Rohmer, rileggendo il diario di Grace Elliott, nobildonna scozzese, si preoccupa di riferire il punto di vista della protagonista. Dall’altra parte la figurazione dello spazio è affatto particolare, perché costruita con l’apporto contemporaneo della pittura del diciottesimo secolo e della tecnologia digitale. Ma quest’ultima appare semplicemente come supporto, come espediente per ottenere un effetto finale, mentre il piano fondamentale del film è la penetrazione di uno spazio tempo altro; ambiziosamente la sfida più grande per Rohmer è la messa in scena della percezione del secolo diciottesimo. Potremmo innanzitutto discutere sulla validità della scelta, vale a dire se il risultato della rappresentazione ci porta davvero la palpitazione di quei terribili eventi del Terrore postrivoluzionario, vale a dire se in fondo le caratteristiche espressive si traducano in impulsi riconoscibili ed interpretabili dai nostri sensi.
Non è un film sulla rivoluzione francese, ma sul periodo di follia che segue sempre ogni tentativo di rigido riferimento a una ideologia e ad issare ferocemente dalla parte dei nemici da eliminare tutti i possibili oppositori. Il Terrore si trasforma in una caccia all’uomo, durante la quale non si bada più alle condizioni degli accusati. La donna, ad esempio, ancorché sia trattata con residua gentilezza, è considerata alla stregua del peggior assassino. In una scena Rohmer mostra le sofferenze patite da alcune donne arrestate insieme alla Elliott. Sono anzi più anziane di Grace e sono rimaste in piedi per molte ore, hanno a disposizione una sola sedia dove attendere forse il giudizio. Giudizio in massa che si pratica con il massimo fervore dogmatico, con i rischi dell’eccitazione di un Comitato di sorveglianza per risolvere tutto in fretta, chiudere con il passato, con le ultime ombre della corte del re. Si dice che dopo l’esecuzione di Luigi XVI tutto cambierà, perché una volta eliminato il primo simbolo della monarchia, tutti gli altri potranno facilmente cadere (quanta è vicina questa ipotesi allo spettacolo delle Twin Towers dell’11 settembre 2001). Nella terribile immagine finale vediamo una folla dove a turno si fanno avanti gli uomini e le donne per l’imminente esecuzione.

Rohmer però non tralascia la discussione politica. La Nobildonna e Il Duca eredita dalla filmografia precedente – e in questo senso è possibile un accostamento anche con film apparentemente molto diversi come Il Raggio Verde – tutto il piacere della discussione e la ricerca di un nuovo orizzonte. La razionalizzazione dei fatti può essere utile a comprendere quello che sta succedendo? La risposta è negativa (e pensare che si tratta dell’epoca dei Lumi). E non si tratta neanche di prospettiva, quella offuscata e confusa di chi ha vissuto l’evento. Per esempio lady Elliott a un certo punto osserva, dopo la raccapricciante visione della testa decapitata della signora di Lamballe portata in giro su una picca, che mai prima di allora si era arrivati a tanto orrore. La storia invece smentisce questa affermazione, potendosi considerare come una vera e propria perpetuazione dei peggiori terrori, dei massacri più terribili.
La condizione più interessante per lo spettatore di La Nobildonna e Il Duca è di percezione dello spazio tempo. Di fronte ai dipinti, paesaggi ad olio del diciottesimo secolo, vediamo un’immagine “non fotografica”. Una risultante particolare giacché i fondali sono stati ripresi con la mdp digitale. Eppure il senso è quello fotografico come suggerisce anche il ritratto del duca di Orléans che la Elliott custodisce gelosamente, più importanti forse delle corrispondenze che invece può bruciare. Questo non esclude che l’impressione di immagine movimento sia diversa. Dice Pascal Bonitzer (in “Peinture et Cinéma. Décadrages”): “Il movimento implica che un film non è un quadro, che un piano non è un quadro. Pertanto è a partire dalla nozione di piano (del decoupage nel tempo e nello spazio che questa nozione suggerisce) che alcuni cineasti possono essere paragonati a dei pittori”.

Sappiamo che Rohmer in La Marquise d’O ha rappresentato il dipinto di Füssli “L’incubo”. Riprendere immagini fisse-quadri ha forse il senso di una distanza? L’impressione di immobilità è molto forte. Perfino in diverse inquadrature Rohmer ci mostra il lento procedere delle carrozze, dei passanti, o la placida tranquillità dei personaggi sullo sfondo o di secondo piano. Poi le immagini proseguono dentro le stanze, in una successione di interni che fa assomigliare quest’opera a un vero kammerspiel, laddove la tensione e le emozioni, la suspense vera e propria sono affidati alle parti dei vari protagonisti. Suggerisce ancora Bonitzer che “il problema del piano-quadro, ciò che ne fa una figura a parte nel cinema… è che costituendo un tempo d’arresto nel movimento del film, esso non sembra poter integrarsi all’insieme, al ritmo narrativo. Il piano-quadro è chiaramente antinarrativo, ecco perché esso è stato impiegato da quei cineasti che privilegiano la messa in scena e la plasticità espressiva alla sceneggiatura e alla linea narrativa”. E pure Rohmer nella sua lunga intervista ai Cahiers du Cinéma (n. 559) parla proprio di suspense, ammettendo una sostanziale corrispondenza con il classico hitchcockiano Chabrol. Questa suspense in Rohmer va cercata nell’istanza del segreto, quella dimensione filmica che consiste nell’ellisse o nella non visibilità dell’evento. Come accade alla Elliott. In fondo il film è racchiuso in quella scena chiave in cui la sua domestica tenta di vedere l’esecuzione con un cannocchiale. Ella tenta di vedere qualcosa all’orizzonte, non riesce a scorgere nulla, la Elliott invece ha già deciso la sua posizione: dare le spalle a un evento verso il quale ha già fermamente espresso il suo rifiuto e disprezzo.

L’ANGLAISE ET LE DUC di Eric Rohmer (2001)

15 Set

Film TV: Il libro diario della nobildonna Grace Elliott, amante del principe di Galles, il futuro re Giorgio IV e del principe Filippo, duca di Orléans, è la cronaca delle sue giornate e della sua vita a partire dal 1790. Eric Rohmer aderisce al suo racconto e ci regala una straordinaria lezione tecnologica. Utilizza il digitale per inventare, attraverso alcuni tableaux, la cornice scenografica dell’epoca e una prospettiva dello sguardo. Niente travestimenti del presente né esterni da studio tradizionale. Il dispositivo di ripresa si abbina in modo magistrale alla passione teorica per un cinema lineare, “frontale”, con la macchina da presa fissa o quasi, fiducioso negli attori e nell’immanenza delle immagini (magnifiche). Esempio sublime di nuovo cinema griffithiano. I discorsi come lunghissime didascalie. Gli interni come gusci per vivere nella compostezza teatrale il terremoto romanzesco della Storia. Terzo film in costume di Eric Rohmer, dopo “La marchesa von…” e “Perceval”.

Morandini: La rivoluzione francese rievocata attraverso le peripezie personali dell’inglese Grace Elliott, divenuta nobile col matrimonio ed ex amante del duca Filippo d’Orléans. Terzo film in costume del vecchio Rohmer, basato sul Diario della mia vita sotto la Rivoluzione Francese di Lady Grace Dalrymple Elliott, girato con videocamere digitali (fotografia: Diane Baratier), dopo aver chiesto al pittore J.-B. Marot di dipingere, ispirandosi in parte ai disegni di J.L. David, 35 vedute della Parigi del Settecento rielaborate con la tecnologia digitale, dotate di profondità e animate. Film di multiple attese di morte, non privo di suspense (l’esecuzione di re Luigi XVI spiata dall’alto col cannocchiale), impregnato di una tragicità travestita da leggerezza elegante, è raccontato con l’ottica parziale, soggettiva e ambigua della protagonista, creando non pochi imbarazzi nella critica e negli spettatori di sinistra: ricorda a tutti che la Ragione può generare il Terrore. Più che pessimista, è un film sull’atrocità della Storia, ma anche una storia di un amore che si trasforma in pietà e una riflessione sulle convenzioni della visione e sui rapporti tra vero e falso.

LA MARQUISE d’O… di Eric Rohmer

8 Feb

analisi di Michele Mancini

La Marquise d’0 …, tratto (ma vedremo come sia improprio il termine, per difetto) dall’omonima novella di Heinrich von Kleist – imporrà il cineasta a un vasto pubblico senza mancare di sorprendere piacevolmente i suoi. amici affezionati. Anzitutto affronta un testo non suo e perdipiù un testo letterario che lo costringerà ad abbandonare l’ambientazione contemporanea dei contes per cimentarsi con un film in costume: necessità che si svela desiderio a lungo coltivato, e che risponde alla capacità stessa del cinema di giocare con il tempo, di permettere evocazioni di epoche diverse e remote, ricostruzioni, sovrapposizioni, messe in scena di miraggi. “In ogni cineasta sonnecchia il desiderio di ricostruire mondi diversi da quelli reali, sia che si tratti di un mondo lontano, di uno futuro o di uno passato. Ma è un lusso che per lungo tempo non ho potuto permettermi perché giravo film con budgets molto limitati, mentre adesso posso girare dei film in costume” (Entretien avec Eric Rohmer, a cura di Guy Braucourt, “Ecran 76”, n. 47). Ancora. Rohmer abbandona per la prima volta la lingua francese e dirige in tedesco un cast d’attori non più amatoriali ma addirittura teatrali presi in prestito dalla Schaubuehne di Berlino di Peter Stein (Edith Clever, Bruno Ganz, Peter Luhr, Otto Sander). Anche questo dell’altra lingua è desiderio: desiderio di affrontare un significante il più possibile puro (come può esser appunto quello prodotto da una lingua sconosciuta, o almeno straniera), di fare i conti con una lettera garantita proprio nella sua letteralità (non dimentichiamo che Rohmer sta già pensando a confrontarsi con i versi medioevali del Perceval di Chrétien de Troyes): “Desideravo girare in una lingua che non fosse quella di tutti i giorni. Desidero fare un film in versi: la prosa m’infastidisce, il prosaicismo m’infastidisce, volevo uscire da un cinema prosaico. Attualmente vorrei andare oltre un linguaggio corrente, e passare attraverso una lingua straniera è un modo per allontanarmi dal francese quotidiano tramite una lingua che inoltre sia completamente scritta, una lingua da testo classico del quale non bisogna cambiare nulla. Avevo bisogno di mettere in scena un testo che potessi rispettare, ciò che non potevo fare con quelli di cui mi ero servito finora, per due ragioni: prima di tutto perché erano miei e poi perché, essendo un po’ improvvisati, permettevo agli attori di modificarli. Avevo voglia di sentirmi veramente regista. Al contrario di quei registi la cui ambizione è di essere autori, io ero un autore che soffriva per essere tale e che desiderava trovarsi di fronte ad un testo da non toccare” (“Ecran 76”, cit.).

(…) Arriviamo così alla novità che fa de La Marchesa von… una delle operazioni più originali nella storia dei rapporti tra cinema e letteratura: la fedeltà assoluta al testo, a un testo preso “alla lettera”.Intento dichiarato di Rohmer è quello di mostrare come il racconto di uno scrittore di due secoli addietro (la pubblicazione di Die Marquise von 0… risale al 1810), che ovviamente ignorava il cinema, fosse “tecnicamente” una sceneggiatura quale può concepirsi, e scrivere, solo per il cinema. Nelle Notes sur la mise en scène (cfr. “L’Avant-Scène Cinéma”, n. 173, 1976) insiste sulla radicale mancanza di introspezione del narratore kleistiano che “si impone di non menzionare affatto i pensieri intimi degli eroi. Tutto è descritto dall’esterno, contemplato con la stessa impassibilità dell’obiettivo della macchina da presa (…) Meglio del più minuzioso sceneggiatore, Kleist ci informa con la più esatta precisione sugli atteggiamenti, i movimenti, le espressioni dei suoi eroi. Sappiamo in ogni momento se un personaggio è in piedi, seduto o inginocchiato“. E non solo. Rohmer giunge ad attribuire a Kleist una scrittura che sembra presagio della riproduzione tecnica a venire, della quale il cinema rappresenterà appunto il trionfo: il fatidico episodio del guanto, lasciato cadere dal medico che si congeda dalla marchesa, “ha senso – dichiara – solo in rapporto a un possibile film” (“Cinématographe”, n. 19, cit.). Ma non è tanto la promozione di Kleist a profeta che ora interessa, quanto l’assunzione di un testo di partenza a testo “intoccabile”, che Rohmer denomina possibile e necessaria “resistenza” con cui deve confrontarsi il cineasta (Ecran 76, cit.). In tal modo egli qui esaspera quella nozione del testo cui si è attenuto nel progetto dei sei racconti morali, rispetto ai quali, tuttavia, come abbiamo visto, si riservava la licenza di integrazioni e modifiche di dialoghi e passaggi, convinto che la sua narrazione non fosse mai del tutto completa né compiuta, e che c’erano dunque “cose da aggiungere” (ibidem). Da “aggiungere“, invece, non ci sarebbe nulla in Kleist: “Dopo il colpo di pistola si sarebbe potuto seguire la marchesa, ma ciò avrebbe. obbligato a mettere in scena un momento in cui non c’è testo. Ciò sarebbe quindi equivalso ad aggiungere qualcosa, a “fare del cinema” (Cinématographe, n. 19, cit). Nei sei contes moraux, l’altra identità, quella riflessa e garantita dall’autore del testo-romanzo, è stata finora l’elemento di equilibrio su cui poteva proporsi l’identità stessa di Rohmer regista. Nel momento in cui il programma in sei capitoli si rivela esaurito, all’autore, che non rinuncia certo alla sua politica (anzi, intende esasperarla fino all’assolutezza), non rimane che assumere nel luogo dell’altra identità, nell’altro discorso, un altro autore. E lo fa per poter fondare il proprio discorso. Kleist, per i motivi esposti nonché per la maniacale precisione descrittiva, ben si presta allo scopo. Ma allora è evidente come non bastava “ispirarsi” al testo letterario, e far dunque “del cinema” (cioè rinunciare – arrendendosi al modo di produzione, standardizzato – a quel discorso d’autore che Rohmer moralmente – persegue ed esteticamente rende assoluto). Occorreva invece prendere il testo alla lettera, perseguendo quel presupposto ontologico del cinema che altrove il regista aveva sempre sostenuto (cfr. a proposito di questi problemi di costituzione del soggetto-autore, E. Donda, “Nell’ontologia della fiction”, Fiction, n. 2, 1977-1978).

Così, paradossalmente, dal caparbio rispetto della lettera del testo non è Kleist che finisce con l’emergere e l’imporsi, ma proprio Rohmer, come autore che si valorizza nel momento in cui dichiara e pratica quella sorta di rispettosa neutralità che informerebbe la messa in scena del testo. L’effetto di “raddoppiamento”, che una tale pratica di messa in scena produce, non manca di suscitare nello spettatore una sorta di primitivo – stupore, la sensazione d’assistere, come per la prima volta, a uno spettacolo inedito che si offra pudicamente, eppure senza veli, allo sguardo: Frédéric Vitoux arriva addirittura a parlare di rivelazione (cfr. “Positif”, n. 183-184), che è un termine non certo sconosciuto alla mistica (sarebbe allora più opportuno parlare direttamente di quell’epifania epifania del reale attraverso il cinema – che Rohmer ha invocato e difeso contro il nuovo corso dei “Cahiers”).Va notato come pure la promozione e il lancio del film siano stati centrati su questo aspetto di fedeltà assoluta e di provocatoria presa alla lettera del testo kleistiano. E perciò non si è esitato a sbandierare, come eccezione che rafforza l’assunto, l’unica licenza “poetica” che Rohmer si sarebbe concesso nel momento fatidico in cui l’inconsapevole Marchesa subisce la violenza carnale: in luogo di lasciarla svenuta Rohmer ha preferito vederla preda del pesante sonno provocato da un estratto di papavero (fra le cosiddette “licenze” va annoverato anche il ricorso ad un flash-back che contrasterebbe la pratica della “cronologia” che Rohmer persegue ma a cui è stato costretto dall’assunto di nulla aggiungere al testo). Stralci fedeli del testo sono stati impiegati per i cartelli che scandiscono il film mentre, per i dialoghi, Rohmer ha trascritto i discorsi indiretti dell’opera kleistiana in dialoghi di stile diretto (operazione cui peraltro è ben esercitato visto che tutti i racconti morali sono in gran parte scritti in stile indiretto). Ne riportiamo uno stralcio per dar conto della meticolosità della operazione. Quando, ad esempio, il testo di Kleist suona: “Essa rispose, gettandogli le braccia al collo, che allora non le sarebbe apparso come un demonio se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo“, la corrispondente battuta della Marchesa interpretata da Edith Clever suonerà: “Non mi saresti sembrato un diavolo se, alla tua prima apparizione, non ti avessi preso per un angelo“. La trascrizione ha generalmente comportato una condensazione del dialogo e una conseguente impressione di rapidità, di esasperata essenzialità. Il tutto ripropone gli arcaismi di una scrittura ricca di espressioni e vocaboli in disuso nel tedesco di oggi, che Rohmer ha difeso dalle pressioni della produzione tedesca che avrebbe gradito una certa “modernizzazione” del linguaggio. Le difficoltà dei dialoghi richiedevano peraltro un alto livello professionale, e anche questo è stato determinante per la scelta della Schaubuehne di Berlino.

Era prevedibile che il proporre sugli schermi – al di là dei codici dei generi dominanti, compresi quelli cui ci ha abituati una certa produzione d’autore – una messa in scena talmente rispettosa non solo degli arcaismi del dialogo, ma soprattutto dei gesti prescritti da una letterarietà romantica (quale per certi aspetti potrebbe essere definita quella di Kleist), avrebbe provocato letture di tipo estraniante, se non addirittura suscitato, come di fatto è avvenuto, ilarità e sorrisi. Ilarità e sorrisi da Rohmer stesso previsti e non temuti, come non aveva temuto quelli, in verità più contenuti, che provocò il comportamento di Trintignant in La mia notte con Maud: “La recitazione non dovrà cadere nel patetico, ma restare naturale, una naturalezza che secondo le norme attuali certamente non è tale, ma neanche è mai esistita. Eviteremo ogni spirito di parodia. Se il riso esiste, è di diversa specie: deriva dalla distanza in cui Kleist si situa per narrare la sua storia e che noi intendiamo mantenere interamente, senza allungarla o ridurla artificialmente. Speriamo che il fatto di marcare bene l’interpretazione comica, in un passo che l’autore ha voluto divertente, stemperi nello spettatore del film il riso beffardo che, più oltre, potrebbe coglierlo davanti all’arcaismo di certe espressioni: parole, gesti o mimica. Si dirà che camminiamo sul filo, ma è così che fa lo stesso Kleist” (Notes sur la mise en scène, “L’Avant-Scène Cinéma”, cit.). Come per i contes anche per La Marchesa, difatti, l’economia di un certo piacere filmico si realizza soprattutto nello scarto tra le enunciazioni del personaggio e il suo comportamento, tra l’enfasi della situazione e la parsimoniosa amministrazione della recitazione. Un sottile gioco di differenze s’innesta nell’ambiguità dei registri (patetico, ironico, comico) che è propria del testo di Kleist e nell’ambiguità su cui si fonda, e si mantiene, il personaggio stesso della Marchesa nel corso di tutto il racconto.

da Eric Rohmer, Il Castoro cinema 1988

LA MARQUISE d’O… di Eric Rohmer (1976)

8 Feb

Morandini: Da una novella (1808) di Heinrich von Kleist: nel 1799 in Lombardia una giovane vedova rischia in un assedio di essere violentata dalla soldataglia russa, ma viene soccorsa da un giovane conte. Il modo con cui, sul filo di un’ironia ora comica ora tragica, Rohmer ha messo in immagini Kleist ha del miracoloso per la ricostruzione dell’epoca neoclassica, l’impassibilità con cui registra il comportamento dei personaggi, la direzione degli attori. Una commedia “lacrimosa” che non ha nulla di “sentimentale”. Fotografia di Nestor Almendros. Premio speciale della giuria a Cannes.

Film TV: Seconda metà del Settecento, Italia del Nord. Truppe nemiche assediano le città. La figlia del governatore viene salvata da un conte che la sottrae a un gruppo di soldati. Tratto da un racconto di Heinrich von Kleist, è una delle più accurate opere di Rohmer: raffinata ricostruzione di interni, sottile analisi di costume, precise citazioni iconografiche, testo recitato in tedesco antico con attori di provenienza teatrale, in un clima di erotismo casto e compresso.

LE RAYON VERT di Eric Rohmer (1986)

24 Nov

Morandini: Luglio; Delphine, impiegata parigina che va per i trenta, non sa dove andare in vacanza e con chi. Suo inquieto andirivieni da Parigi in Normandia, in montagna e a Biarritz dove vede – guardando il sole che tramonta nell’Atlantico – il raggio verde, quel fenomeno di rifrazione che dà il titolo al romanzo (1882) di Jules Verne. Chi lo vede, dice Verne, riesce a leggere meglio nei propri sentimenti e in quelli degli altri. Girato in 16 mm con largo margine d’improvvisazione nei dialoghi per gli attori (soprattutto per Rivière, attrice o figura rohmeriana a 18 carati), è un film chiaro e delizioso.

Film TV: Delphine non sa decidere dove passerà le sue vacanze: il mare l’annoia, la montagna la immalinconisce. Rohmer allo stato puro: leggerezza e libertà. Improvvisazione nei dialoghi, ispirazione alla lontana da un romanzo (omonimo) di Jules Verne. Leone d’oro a Venezia.



LES AMOURS D’ASTREE et CELADON di Eric Rohmer

17 Set
da Cahiers du Cinema n.626
Pastori nel vento di Arnaud Macé
 

 

Antichi pastori, vestiti di tuniche e drappi, ai pascoli, sulle rive di un fiume ; il flusso d’acqua, il vento negli alberi, l’ombra ed il sole che giocano nel sottobosco – la libera coesistenza di questi elementi nella macchina da presa di Eric Rohmer, per un adattamento de l’Astrée di Honoré d’Urfé, è una vera sorpresa. A coloro i quali interessano prima di tutto il compimento e l’eredità – Rohmer conclude qui un’opera cominciata negli anni cinquanta? prepara un testamento? – rispondiamo che sbagliano domande. Il film che abbiamo di fronte è un’aurora, un inizio, e lo sconvolgimento che ha reso possibile una tale libertà espressiva è ancora lungi dall’esser stato completamente sondato nella sua profondità. Quando Rohmer adattò [lo scrittore medioevale] Chétien de Troyes in Perceval le Gallois, [1978, conosciuto in Italia sia con il titolo di Perceval che con quello di Il Fuorilegge, N.D.T), il cineasta aveva dato il rigore del suo realismo come spiegazione per la scelta di far muovere i cavalieri in un decoro artificiale ispirato all’immaginario dell’epoca, con quegli strani alberi che nessun vento anima. Era insopportabile per il cineasta l’idea di fotografare un cavaliere in costume d’epoca  accanto alla materia irriducibilmente presente di un albero. Non che i cavalieri non avessero mai attraversato delle foreste popolate di veri alberi: il problema semmai è che un tale evento è, e sarà, per sempre inaccessibile alla registrazione fotografica. Lo stesso rigore dirigeva i due film storici precedenti. La realtà della strada del 1936 appariva attraverso il medium dei cine-giornali dell’epoca o della pittura dipinta dalla protagonista in Triple Agent – Agente Speciale (2003). Il popolo della rivoluzione si muoveva in una scenografia ricostruita attraverso delle stampe d’epoca (La Nobildonna e il duca, 2001) : non si trattava, come si è potuto ritenere, di un addio di Rohmer a Roberto Rossellini, del rifiuto di lasciare la macchina da presa correre per le strade, di sottrarre alla Storia il suo popolo rumoroso per dei fini sospetti di essere reazionari. Rohmer si rifiutava semplicemente di creare l’illusione i una realtà che il cinema non filmerà mai, o mai più. [Per offrire una vista sul passato] bisogna affidarsi agli archivi esistenti, che si tratti di un supporto filmico per l’epoca più recente, o della traccia pittorica o di altre forme di testimonianza per i tempi più remoti.

 Tra queste altre forme possibili, ce n’è una che Rohmer continua a privilegiare, dopo Perceval : la letteratura, in quanto essa ci trasmette l’immaginario di uomini del passato, e dunque ci mette in contatto con la realtà che lo ha suscitato. Dell’esperienza della realtà dell’epoca di Urfé ci è così offerta la testimonianza di un uomo del tempo: conviene sposare questo punto di vista, fin nei suoi anacronismi. Così come l’artificio di una scenografia frutto dell’immaginazione antica era in Perceval la più realista delle opzioni possibili, l’arbitrio della rappresentazione dell’antichità di Urfé serve qui a ricordarci che il solo modo per avvicinarci ad una realtà perduta è l’espediente. Inoltre Rohmer estende la logica paradossale di questo rapporto con il reale, mescolando anacronismi contemporanei a quelli commessi da Urfé: per esempio qualche moderna tromba nel bel mezzo degli strumenti degli antichi pastori.

Seguiremo la cronaca dell’immaginario e dei suoi riverberi attraverso i secoli. È pur vero che questa volta Rohmer oltrepassa la linea da lui stesso tracciata in Perceval. In quest’ultimo, il cinema poteva autorizzarsi la registrazione documentaria degli uomini e dei cavalli perché essi erano iscritti in una scenografia stilizzata che ci ricordava ad ogni istante l’esistenza di una realtà definitivamente persa per la macchina da presa. Qui, il primo avvertimento del cambiamento è nei titoli di testa : l’autore avverte con una didascalia che non ha potuto girare nella regione di Forez, dove trovò ispirazione l’immaginazione di Urfé, a causa delle troppe trasformazioni dovute all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Le prime sequenze confermano lo scandalo: Semyre, rivale di Céladon, pastore uscito dall’immaginazione arcadica di uno scrittore dell’inizio del XVII secolo, discende da una collina altrettanto verde che un prato sul bordo di un lago di Cergy-Pontoise; si fa largo tra una vegetazione mossa dal vento come se ne trova ancora in questo inizio di XXI secolo, e si avvicina, come ancora oggigiorno in molti luoghi si avvicinano le ragazze, Astrée (Stéphane Crayencour), una bella ragazza dai capelli biondi che snobba la festa le cui melodie risuonano nella valle.

 

L’antichità del testo e del soggetto si trova in questa maniera, fin dai primi piani, rosicchiata dal prosaismo romheriano, questa cosa così contemporanea : un modo inesorabile di appianare le differenze, di filmare gli uomini e gli alberi senza impedire agli uni di raccontare delle storie e agli altri di rumoreggiare al vento, ma senza mai lasciare loro credere di poterci prendere per il naso. Rohmer ci lascia approfittare senza tante maniere dello spettacolo spesso esteriore dei costumi dei viventi; Noi non sappiamo, tuttavia, che questa prosa poteva conquistare dei nuovi mondi, anche quelli, invisibili, che gli erano fino ad allora preclusi. La macchina da presa che seguiamo senza indugi a Clermont-Ferrand o a Cherbourg ci invita a inoltrarci  nelle regioni che il realismo dell’autore un tempo gli impediva di mostrarci. Una tale audacia suppone alcune garanzie, per esempio un racconto dalla logica cristallina. Nell’elemento della letteratura, Rohmer sa come andare alla ricerca della purezza narrativa. Qui, come già nel caso di Kleist (La Marchesa Von..., 1976), si tratta di esporre delle storie che si rivoltano come un guanto. Tre discese e risalite costituiscono la respirazione di questa qui. Céladon (Andy Gillet gli conferisce un eleganza opportunamente androgina) appare alla festa accompagnato da una ragazza. Ma non si tratta di Astrea. [L’eroe è accompagnato da una donzella che finge di essere la sua compagna] per buggerare i genitori dei due innamorati che un’antica disputa sentimentale ha reso ostili ai sentimenti dei due giovinetti. Il finto amore protegge la realtà dagli affetti. E se la realtà cadesse nella finzione ? È il dubbio con il quale Semyre confonde il cuore di Astrea. Ma più in generale la domanda che attraversa il film, producendo a questo, come a tutti i racconti rohmeriani, la sua capricciosa morale.

Perdendo il suo amore nella trappola delle apparenze, Astrea lo ritroverà affidandosi a queste stesse, nelle quali l’inganno può essere portatore della più grande verità e della più grande gioia. Queste sono delle questioni alle quali anche lo spettatore si avvicina, seguendo un Rohmer che, sfidando i divieti di una volta, ci offre le apparenze impossibili di antichi pastori dai capelli sollevati da un vento di oggi, ai piedi di alberi vivi e vegeti e sulle rive di veri fiumi. Prima discesa dunque : Céladon danza con un’altra pastorella, che gli ruba un bacio e il controcampo dove Astrea, arrivata alla festa, osserva la scena, non lascia trasparire nulla delle resistenze del suo amante. Di nuovo sulle alture di una collina, ritroviamo Céladon, il quale apprende dalla sua bella che gli è ormai e per sempre proibito mostrarsi davanti a lei. Impossibilitato ad apparire per causa delle apparenze, Céladon discende [seconda] il pendio di corsa per andare a gettarsi al fiume.

Eccoci a passeggio con le ninfe : la camera segue delle dee in passeggiata per dei tratturi di campagna, su di un carretto a forma di vascello avviluppate in grandi veli bianchi trasparenti sollevati dal vento, molto semplicemente. Il film non smetterà di offrire un accoglienza calorosa, nel cuore delle apparenze più dirette, a tutto il regno dell’invisibile. Dopo le creature del passato e della letteratura, perché proibirsi gli dei? La regina delle ninfe, Galatea, avvertita da un presagio, si è messa in viaggio con il suo seguito di ancelle, per recuperare in un meandro dove il fiume forma un’ansa, il corpo di Céladone, che esse riportano in segreto nel castello e alla vita. Galatea, sedotta dal pastore, rifiuta di lasciarlo partire: una delle sue ancelle, Leonide (Cécile Casse, maliziosa e abile divinità), traveste il giovane pastore con abiti femminili per farlo uscire dal castello, e lo conduce nella foresta che separa i due paesi [quello degli dei e quello dei pastori]. Céladon si stabilisce nel bosco, perché gli è stato proibito dalla sua amata Astrea di comparire di nuovo davanti ai suoi occhi ; su consiglio di Adamas, il druido, zio di Leonida, costruisce nel bosco sacro un altare alla dea dalla quale la sua bella pastorella ha preso il nome.

Terza discesa : i pastori si recano presso i druidi per la festa del Gui. Sul cammino, trovano riposo nella foresta. Al mattino Céladon li trova sparpagliati al suolo come un grappolo di animaletti : è una delle scene dove la semplicità dei pastori di Rohmer si avvicina alla grazia dei fratini dei Fioretti di Rossellini. Travestito da giovane druidessa da Adamas, che proviene da una famiglia nella quale di certo si pratica con gusto il travestimento, Céladon si mischia alla festa. Apparire gli occhi di chi non lo sa ancora, attraverso la grazia del travestimento: il più shakespeariano degli stratagemmi apre infine all’ascensione del film, una linea intensa dove giubilo si nutre del sogno ridestato che la protezione delle apparenze offre ai due amanti. Astrea si infatua della giovane druidessa della quale cerca la compagnia oltre ragione. Non aver interrogato il mistero di questa strana somiglianza lascia ad Astra il piacere di confidarsi senza saperlo alla felicità di uno spettacolo che aveva bandito dal suo sguardo ; lo spettatore vive un’emozione parallela, e questo due volte. In primo luogo perché sa, quanto a lui, ciò che si nasconde sotto i tratti femminei della druidessa – il viso e la voce di Céladon imitano così bene quelli di una giovinetta che questi ne prende, con intermittenza anche ai nostri occhi, le sembianze. In secondo luogo perché lo spettatore, anche lui, dopo un buon momento, si lascia cullare dal piacere di vedere dei veri alberi animati da un vero vento, apparenze che il rigore realista dei precedenti film gli avevano proibito. Regna una strana situazione nella casa del druido, mentre sale l’irresistibile attrazione delle due giovinette l’una per l’altra.

L’arrivo di nuovi partecipanti alla festa obbliga il druido a spostare tutte le ragazze nella stessa stanza. Queste si aiutano a spogliarsi, la camicia da notte di Astrea non sa far altro che cadere e lasciar apparire il suo seno. Al risveglio ancora, essa offre il seno alla luce del mattino. Nel piacere delle prime luci, Astra non si rende conto di oltrepassare con le sue carezze e i suoi baci alla druidessa il limite di ciò che, anche tra le più libere delle pastorelle, consiglia la tenerezza reciproca tra giovinette. Tale frenesia, destinata a rovinare le apparenze del travestimento di Céladon, rivela ad Astrea la loro verità : la somiglianza che l’ha attirata verso la druidessa non mentiva, essa le riporta il suo Céladon dal regno dei morti.

Shakespeare ancora : Rohmer, come si sa, conosce bene il Racconto d’inverno, che termina con il ritorno alla vita di Hermione, mentre la sua statua si anima. Ne propone qui una lettura radicale: sono le apparenze stesse, il viso stesso di Céladone che è arrivato a nasconderlo agli occhi di Astrea, e il passaggio dalla morte alla vita si fa senza cambiar nulla di essa, senza nulla alterare della superficie delle cose, nell’incoscienza stessa del piacere preso a vedere il desiderio animare i giovani corpi denudati; Dire al morte e il ritorno dei morti tra noi senza lasciare il mondo delle apparenze, collocare l’invisibile sulla superficie del visibile: capiamo la forza sovrana di un cinema arrivato a questo tipo di semplicità, al prezzo del ritorno delle immagini una volta bandite, servite da combustibile per dar nuova vita ai fantasmi – i pastori che sono annegati, come le opere e i mondi che il passato ha inghiottiti. Alcuni cineasti ci hanno insegnato che si può camminare con i morti, restando ciononostante alla più prosaica superficie delle cose, senza disfarle, né lacerarle. Rohmer, attraverso la grazia della metamorfosi della propria arte, fa ormai parte di essi.