da Cahiers du Cinema n.626
Pastori nel vento di Arnaud Macé
Antichi pastori, vestiti di tuniche e drappi, ai pascoli, sulle rive di un fiume ; il flusso d’acqua, il vento negli alberi, l’ombra ed il sole che giocano nel sottobosco – la libera coesistenza di questi elementi nella macchina da presa di Eric Rohmer, per un adattamento de l’Astrée di Honoré d’Urfé, è una vera sorpresa. A coloro i quali interessano prima di tutto il compimento e l’eredità – Rohmer conclude qui un’opera cominciata negli anni cinquanta? prepara un testamento? – rispondiamo che sbagliano domande. Il film che abbiamo di fronte è un’aurora, un inizio, e lo sconvolgimento che ha reso possibile una tale libertà espressiva è ancora lungi dall’esser stato completamente sondato nella sua profondità. Quando Rohmer adattò [lo scrittore medioevale] Chétien de Troyes in Perceval le Gallois, [1978, conosciuto in Italia sia con il titolo di Perceval che con quello di Il Fuorilegge, N.D.T), il cineasta aveva dato il rigore del suo realismo come spiegazione per la scelta di far muovere i cavalieri in un decoro artificiale ispirato all’immaginario dell’epoca, con quegli strani alberi che nessun vento anima. Era insopportabile per il cineasta l’idea di fotografare un cavaliere in costume d’epoca accanto alla materia irriducibilmente presente di un albero. Non che i cavalieri non avessero mai attraversato delle foreste popolate di veri alberi: il problema semmai è che un tale evento è, e sarà, per sempre inaccessibile alla registrazione fotografica. Lo stesso rigore dirigeva i due film storici precedenti. La realtà della strada del 1936 appariva attraverso il medium dei cine-giornali dell’epoca o della pittura dipinta dalla protagonista in Triple Agent – Agente Speciale (2003). Il popolo della rivoluzione si muoveva in una scenografia ricostruita attraverso delle stampe d’epoca (La Nobildonna e il duca, 2001) : non si trattava, come si è potuto ritenere, di un addio di Rohmer a Roberto Rossellini, del rifiuto di lasciare la macchina da presa correre per le strade, di sottrarre alla Storia il suo popolo rumoroso per dei fini sospetti di essere reazionari. Rohmer si rifiutava semplicemente di creare l’illusione i una realtà che il cinema non filmerà mai, o mai più. [Per offrire una vista sul passato] bisogna affidarsi agli archivi esistenti, che si tratti di un supporto filmico per l’epoca più recente, o della traccia pittorica o di altre forme di testimonianza per i tempi più remoti.
Tra queste altre forme possibili, ce n’è una che Rohmer continua a privilegiare, dopo Perceval : la letteratura, in quanto essa ci trasmette l’immaginario di uomini del passato, e dunque ci mette in contatto con la realtà che lo ha suscitato. Dell’esperienza della realtà dell’epoca di Urfé ci è così offerta la testimonianza di un uomo del tempo: conviene sposare questo punto di vista, fin nei suoi anacronismi. Così come l’artificio di una scenografia frutto dell’immaginazione antica era in Perceval la più realista delle opzioni possibili, l’arbitrio della rappresentazione dell’antichità di Urfé serve qui a ricordarci che il solo modo per avvicinarci ad una realtà perduta è l’espediente. Inoltre Rohmer estende la logica paradossale di questo rapporto con il reale, mescolando anacronismi contemporanei a quelli commessi da Urfé: per esempio qualche moderna tromba nel bel mezzo degli strumenti degli antichi pastori.
Seguiremo la cronaca dell’immaginario e dei suoi riverberi attraverso i secoli. È pur vero che questa volta Rohmer oltrepassa la linea da lui stesso tracciata in Perceval. In quest’ultimo, il cinema poteva autorizzarsi la registrazione documentaria degli uomini e dei cavalli perché essi erano iscritti in una scenografia stilizzata che ci ricordava ad ogni istante l’esistenza di una realtà definitivamente persa per la macchina da presa. Qui, il primo avvertimento del cambiamento è nei titoli di testa : l’autore avverte con una didascalia che non ha potuto girare nella regione di Forez, dove trovò ispirazione l’immaginazione di Urfé, a causa delle troppe trasformazioni dovute all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Le prime sequenze confermano lo scandalo: Semyre, rivale di Céladon, pastore uscito dall’immaginazione arcadica di uno scrittore dell’inizio del XVII secolo, discende da una collina altrettanto verde che un prato sul bordo di un lago di Cergy-Pontoise; si fa largo tra una vegetazione mossa dal vento come se ne trova ancora in questo inizio di XXI secolo, e si avvicina, come ancora oggigiorno in molti luoghi si avvicinano le ragazze, Astrée (Stéphane Crayencour), una bella ragazza dai capelli biondi che snobba la festa le cui melodie risuonano nella valle.
L’antichità del testo e del soggetto si trova in questa maniera, fin dai primi piani, rosicchiata dal prosaismo romheriano, questa cosa così contemporanea : un modo inesorabile di appianare le differenze, di filmare gli uomini e gli alberi senza impedire agli uni di raccontare delle storie e agli altri di rumoreggiare al vento, ma senza mai lasciare loro credere di poterci prendere per il naso. Rohmer ci lascia approfittare senza tante maniere dello spettacolo spesso esteriore dei costumi dei viventi; Noi non sappiamo, tuttavia, che questa prosa poteva conquistare dei nuovi mondi, anche quelli, invisibili, che gli erano fino ad allora preclusi. La macchina da presa che seguiamo senza indugi a Clermont-Ferrand o a Cherbourg ci invita a inoltrarci nelle regioni che il realismo dell’autore un tempo gli impediva di mostrarci. Una tale audacia suppone alcune garanzie, per esempio un racconto dalla logica cristallina. Nell’elemento della letteratura, Rohmer sa come andare alla ricerca della purezza narrativa. Qui, come già nel caso di Kleist (La Marchesa Von..., 1976), si tratta di esporre delle storie che si rivoltano come un guanto. Tre discese e risalite costituiscono la respirazione di questa qui. Céladon (Andy Gillet gli conferisce un eleganza opportunamente androgina) appare alla festa accompagnato da una ragazza. Ma non si tratta di Astrea. [L’eroe è accompagnato da una donzella che finge di essere la sua compagna] per buggerare i genitori dei due innamorati che un’antica disputa sentimentale ha reso ostili ai sentimenti dei due giovinetti. Il finto amore protegge la realtà dagli affetti. E se la realtà cadesse nella finzione ? È il dubbio con il quale Semyre confonde il cuore di Astrea. Ma più in generale la domanda che attraversa il film, producendo a questo, come a tutti i racconti rohmeriani, la sua capricciosa morale.
Perdendo il suo amore nella trappola delle apparenze, Astrea lo ritroverà affidandosi a queste stesse, nelle quali l’inganno può essere portatore della più grande verità e della più grande gioia. Queste sono delle questioni alle quali anche lo spettatore si avvicina, seguendo un Rohmer che, sfidando i divieti di una volta, ci offre le apparenze impossibili di antichi pastori dai capelli sollevati da un vento di oggi, ai piedi di alberi vivi e vegeti e sulle rive di veri fiumi. Prima discesa dunque : Céladon danza con un’altra pastorella, che gli ruba un bacio e il controcampo dove Astrea, arrivata alla festa, osserva la scena, non lascia trasparire nulla delle resistenze del suo amante. Di nuovo sulle alture di una collina, ritroviamo Céladon, il quale apprende dalla sua bella che gli è ormai e per sempre proibito mostrarsi davanti a lei. Impossibilitato ad apparire per causa delle apparenze, Céladon discende [seconda] il pendio di corsa per andare a gettarsi al fiume.
Eccoci a passeggio con le ninfe : la camera segue delle dee in passeggiata per dei tratturi di campagna, su di un carretto a forma di vascello avviluppate in grandi veli bianchi trasparenti sollevati dal vento, molto semplicemente. Il film non smetterà di offrire un accoglienza calorosa, nel cuore delle apparenze più dirette, a tutto il regno dell’invisibile. Dopo le creature del passato e della letteratura, perché proibirsi gli dei? La regina delle ninfe, Galatea, avvertita da un presagio, si è messa in viaggio con il suo seguito di ancelle, per recuperare in un meandro dove il fiume forma un’ansa, il corpo di Céladone, che esse riportano in segreto nel castello e alla vita. Galatea, sedotta dal pastore, rifiuta di lasciarlo partire: una delle sue ancelle, Leonide (Cécile Casse, maliziosa e abile divinità), traveste il giovane pastore con abiti femminili per farlo uscire dal castello, e lo conduce nella foresta che separa i due paesi [quello degli dei e quello dei pastori]. Céladon si stabilisce nel bosco, perché gli è stato proibito dalla sua amata Astrea di comparire di nuovo davanti ai suoi occhi ; su consiglio di Adamas, il druido, zio di Leonida, costruisce nel bosco sacro un altare alla dea dalla quale la sua bella pastorella ha preso il nome.
Terza discesa : i pastori si recano presso i druidi per la festa del Gui. Sul cammino, trovano riposo nella foresta. Al mattino Céladon li trova sparpagliati al suolo come un grappolo di animaletti : è una delle scene dove la semplicità dei pastori di Rohmer si avvicina alla grazia dei fratini dei Fioretti di Rossellini. Travestito da giovane druidessa da Adamas, che proviene da una famiglia nella quale di certo si pratica con gusto il travestimento, Céladon si mischia alla festa. Apparire gli occhi di chi non lo sa ancora, attraverso la grazia del travestimento: il più shakespeariano degli stratagemmi apre infine all’ascensione del film, una linea intensa dove giubilo si nutre del sogno ridestato che la protezione delle apparenze offre ai due amanti. Astrea si infatua della giovane druidessa della quale cerca la compagnia oltre ragione. Non aver interrogato il mistero di questa strana somiglianza lascia ad Astra il piacere di confidarsi senza saperlo alla felicità di uno spettacolo che aveva bandito dal suo sguardo ; lo spettatore vive un’emozione parallela, e questo due volte. In primo luogo perché sa, quanto a lui, ciò che si nasconde sotto i tratti femminei della druidessa – il viso e la voce di Céladon imitano così bene quelli di una giovinetta che questi ne prende, con intermittenza anche ai nostri occhi, le sembianze. In secondo luogo perché lo spettatore, anche lui, dopo un buon momento, si lascia cullare dal piacere di vedere dei veri alberi animati da un vero vento, apparenze che il rigore realista dei precedenti film gli avevano proibito. Regna una strana situazione nella casa del druido, mentre sale l’irresistibile attrazione delle due giovinette l’una per l’altra.
L’arrivo di nuovi partecipanti alla festa obbliga il druido a spostare tutte le ragazze nella stessa stanza. Queste si aiutano a spogliarsi, la camicia da notte di Astrea non sa far altro che cadere e lasciar apparire il suo seno. Al risveglio ancora, essa offre il seno alla luce del mattino. Nel piacere delle prime luci, Astra non si rende conto di oltrepassare con le sue carezze e i suoi baci alla druidessa il limite di ciò che, anche tra le più libere delle pastorelle, consiglia la tenerezza reciproca tra giovinette. Tale frenesia, destinata a rovinare le apparenze del travestimento di Céladon, rivela ad Astrea la loro verità : la somiglianza che l’ha attirata verso la druidessa non mentiva, essa le riporta il suo Céladon dal regno dei morti.
Shakespeare ancora : Rohmer, come si sa, conosce bene il Racconto d’inverno, che termina con il ritorno alla vita di Hermione, mentre la sua statua si anima. Ne propone qui una lettura radicale: sono le apparenze stesse, il viso stesso di Céladone che è arrivato a nasconderlo agli occhi di Astrea, e il passaggio dalla morte alla vita si fa senza cambiar nulla di essa, senza nulla alterare della superficie delle cose, nell’incoscienza stessa del piacere preso a vedere il desiderio animare i giovani corpi denudati; Dire al morte e il ritorno dei morti tra noi senza lasciare il mondo delle apparenze, collocare l’invisibile sulla superficie del visibile: capiamo la forza sovrana di un cinema arrivato a questo tipo di semplicità, al prezzo del ritorno delle immagini una volta bandite, servite da combustibile per dar nuova vita ai fantasmi – i pastori che sono annegati, come le opere e i mondi che il passato ha inghiottiti. Alcuni cineasti ci hanno insegnato che si può camminare con i morti, restando ciononostante alla più prosaica superficie delle cose, senza disfarle, né lacerarle. Rohmer, attraverso la grazia della metamorfosi della propria arte, fa ormai parte di essi.
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