PINA 3D di Wim Wenders

15 Nov

Dancing Queen 3D di Roy Menarini

L’incontro con Pina Bausch, la decisione di girare il film con lei e su di lei, la morte della grande artista, il conseguente omaggio che diventa lascito, hanno imprevedibilmente rivitalizzato Wim Wenders, unico, insieme a Werner Herzog con Cave of Forgotten Dreams, e al gruppo artistico Zapruder, a sperimentare nuove vie alla tridimensionalità.
In che modo si esplicita questa vena creativa ritrovata? Anzitutto dall’umiltà con cui Wenders “incontra” l’arte di Pina Bausch e dei suoi formidabili ballerini. Consapevole che da inventare c’è ben poco, di fronte a risultati artistici così indiscutibili e rivoluzionari, egli ha lavorato con la compagnia di Wuppertal cercando di restituire per quanto possibile la forza espressiva dei gesti e dei movimenti, ampliando la possibilità tutta cinematografica dell’enfasi sul dettaglio corporeo e facciale, e lavorando per estensione sulle coreografie urbane e open space di alcune opere.
In secondo luogo – ed è la cosa che qui più ci interessa – ha riflettuto con grande acutezza sul problema del 3D. Pina non solo costituisce un piacere per gli occhi, ma diviene un gesto strategico nei confronti del linguaggio audiovisivo. Il problema del 3D si è rivelato, in questi anni, la rappresentazione del corpo umano. Apparentemente perfetto per illustrare mondi di fantasia (Avatar), universi macchinici (Transformers 3), e tutto il cosmo animato e disegnato (il cinema di animazione o motion capture), il 3D non ha mai ragionato seriamente – Zemeckis a parte – sul problema della figura umana. Come nell’epoca primitiva, anche gli spettatori di oggi infatti si stanno abituando ad osservare in 3D un corpo miniaturizzato (l’effetto di ridimensionamento recato dalla visione stereoscopica) e di volta in volta ricalibrato sullo spazio diegetico o su quello del rilievo tridimensionale. Non a caso, gli unici film davvero innovativi in questa direzione sono stati gli apparentemente beceri Jackass 3D, Saw 3D e Step Up 3D, forse inconsapevoli nella loro riflessione sul corpo umano.


Wenders spazza via i dubbi e ricolloca, grazie a Pina Bausch e ai suoi artisti, il corpo al centro del discorso cinematografico, facendone percepire al tempo stesso la pienezza, l’espressività e il pericolo (mai come nella danza contemporanea il corpo è al tempo stesso in salvo e in pericolo rispetto al mondo). Come Pina per la danza, egli sa che anche al cinema il corpo è in grado di esprimere qualsiasi emozione, e il 3D possiede la forza necessaria a far detonare tutto il potenziale che il cinema di questi anni ha disperso o delegato al solo cinema d’autore.
E forse la frase di Pina con cui si apre il film (“Ci sono momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati e non si sa più che fare: a questo punto comincia la danza”), riguarda un po’ anche Wenders, imprigionato nelle logorroiche meditazioni dei suoi personaggi recenti, e ora invece liberato da Pina Bausch e dal suo corpo-cinema.

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